«Un giorno dopo l’altro» è una delle opere poetiche più belle di Luigi Tenco, piena di malinconia.
E può essere il titolo utile per descrivere quello che sta avvenendo nell’informazione italiana.
Sotto la superficie dei segni evidenti, stremati dal virus e dai suoi effetti collaterali, si insinua da tempo una “lotta di classe” dalla parte dei padroni nel mondo dei media. La posta in gioco è, per l’intanto, la preparazione di un dopo Conte; più strategicamente mettersi in pole position nella transizione all’era digitale, dove per i mezzi di comunicazione tradizionali i posti a sedere saranno pochi.

Illumina il tutto la recrudescenza del conflitto di interessi, la cui mancata regolazione (a parte la legge Frattini del 2004, che è acqua fresca; infatti, nessuno la cita mai) è all’origine di molti dei guai attuali.

È noto che non aver varato una buona legge in materia potrebbe portare direttamente all’inferno gran parte dei dirigenti del centrosinistra d’annata.

Nelle ultime giornate si è assistito ad un doppio pugno nello stomaco. Sulla Rai e sui giornali.

Sul servizio pubblico, già in odore di caduta di credibilità a causa dell’ennesima lottizzazione al di sotto di ogni sospetto con la punizione di due brave professioniste, si è abbattuta l’ira (si fa per dire) della commissione parlamentare di vigilanza. Lo scorso giovedì.

Normale amministrazione, si potrebbe commentare. No. La Rai non è affatto immune da colpe.
Tuttavia, le critiche non si sono focalizzate sui diversi punti critici, bensì su di un argomento dove l’azienda di viale Mazzini è solo la timida emula del modello inaugurato negli anni novanta da Fininvest-Mediaset sulla raccolta pubblicitaria.

Un passo indietro. Il 13 febbraio l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni sfoderò ben due delibere avverse al servizio pubblico: quella assai commentata sulle inadempienze, con multa salata (sospesa successivamente dal Tar); nonché una meno conosciuta sulla «svendita» degli spot come pratica scorretta.

Sarà pure, ma val la pena ricordare che tale politica fu all’origine della costruzione dell’impero berlusconiano. Il «biscione» diventò pressoché monopolista grazie a simile atteggiamento. Si chieda, magari, ai concorrenti dell’epoca.

Ecco, ora accade che due parlamentari di Forza Italia, legittimamente dipendenti di Mediaset, si buttino sulla vittima designata dallo scranno di presidente della commissione e di autore dell’interrogazione. Non è un caso (doppio) di conflitto di interessi?

Passiamo alla carta stampata. Attorno al cambio di proprietà del gruppo «Gedi» si è scritto in abbondanza. Ma l’appoggio così esplicito alla sbalorditiva richiesta di garanzia pubblica per un prestito di 6,3 miliardi di euro da parte della proprietà di Stampa e Repubblica (Fiat Chrysler Automobiles, Fca) come lo vogliamo chiamare? Il vicesegretario del partito democratico Andrea Orlando, non proprio un pericoloso estremista, ha parlato criticamente della triste «impurità» di buona parte dell’editoria. Ed è stato subito attaccato dagli interessati. La coda di paglia, del resto, non è un’invenzione letteraria.

Non c‘è alcun complotto contro il governo, si sostiene. E perché mai? Diverse fiction televisive ci hanno insegnato che la realtà spesso è peggio delle ricostruzioni immaginarie?

Sic transit gloria mundi, dice un celeberrimo testo religioso. Però, già che ci siamo, guardiamo alle cose terrene: la crisi della principale agenzia, l’Ansa; il rischio di chiusura della Gazzetta del mezzogiorno, storica testata che neppure la guerra riuscì a spegnere.

C’è materia, insomma, per riaprire il conflitto.