Un giornale del popolo al servizio del popolo”: questo fu, nel biennio 1937-1939 “La voce degli italiani” diretto da Giuseppe Di Vittorio nell’esilio francese. E, ora, a ottanta anni dall’inizio di quelle pubblicazioni (e a sessanta dalla morte del grande sindacalista), urge una riflessione su quel passato, sulla grandezza di una politica forgiata al contatto con le masse bracciantili e operaie, su ciò che va assolutamente recuperato di quel tempo; ma urge anche una riflessione sul valore effettivo dei giornali, sulla militanza politica che dava un senso pregnante e ricco al giornalismo. Perché è da quel passato che possono venire indicazioni fruttifere per il nostro presente incerto e malato. Aver abbandonato la conoscenza di questi tesori ormai nascosti è la causa prima della crisi che viviamo. Sicuramente è la causa prima della crisi verticale della sinistra. Una ricognizione, quella sugli articoli di Giuseppe Di Vittorio dall’esilio francese, che facciamo accompagnati da un poderoso volume che li raccoglie, pubblicato per merito della Fondazione Giuseppe Di Vittorio dalle edizioni Ediesse. Un vero e proprio viaggio nella memoria accompagnati dal giudizio di Italo Calvino: “La Voce degli Italiani era il giornale che da Parigi parlava a tutti i nostri connazionali sparsi per il territorio francese, umili lavoratori spinti dalla miseria a emigrare, o militanti costretti a trovare un asilo sempre insidiato e amaro in terra straniera: era il giornale che dava il senso della continuità d’una Italia ben diversa da quella retorica e folle che, persa la libertà propria, sognava e già perpetrava aggressioni contro altri popoli”. E, a 60 anni dalla morte del sindacalista pugliese, tornare su Di Vittorio è non solo salutare per la mente ma per il futuro stesso del mondo del lavoro odierno prigioniero da una parte dei riti e miti del mondo liberista e dall’altra della decadenza della sinistra e della burocratizzazione sindacale. Naturalmente parliamo di una analisi critica che sappia distinguere il grano dal loglio, cioè le cose buone dagli errori (ne hanno fatti anche i “padri fondatori”) e dalle vecchiezze del passato.

E fa bene Vito Antonio Leuzzi, direttore dell’istituto pugliese per la storia dell’antifascismo, a sottolineare l’ossessione profetica di Di Vittorio quando affermava semplicemente: “Fascismo significa guerra”. E fu così. E ancora ha ragioni da vendere Adolfo Pepe, direttore della Fondazione dedicata al Nostro, quando sottolinea che “il taglio complessivo, sorprendentemente moderno grazie a una grande apertura alle nuove forme della cultura e della comunicazione, ci restituiscono il tentativo di penetrare le fragilità di un’identificazione tra fascismo e nazione costruita più sulla finzione retorica e istituzionale che su una reale identificazione etico-politica”. Ma conviene iniziare il viaggio dentro questi articoli assaporando la lucidità e la sensibilità di un leader politico (questo fu di fatto Di Vittorio al di là della grandezza sindacale) quanto mai attuale se si vuole evitare che un nuovo fascismo, ovviamente con un altro nome, prenda il sopravvento e prepari altre catastrofi. E non a caso l’omaggio dell’illustre esule, nel primo articolo del’11 luglio 1937, è ai “nuovi garibaldini” che lottano per la libertà in Spagna: “Ogni vostra vittoria, ogni vittoria dell’Esercito Popolare della nuova Spagna, è una vittoria del popolo italiano contro i suoi oppressori”. Ma è interessante vedere come Di Vittorio parla di un capo contadino francese, Renaud Jean, e come mette il dito sulla piaga delle alleanze tra classe operaia e mondo agricolo ma anche sui pregiudizi da abbattere nel mondo dell’emigrazione tra proletari di diverse nazionalità: “Renaud Jean non si è dato tregua nel dissipare le prevenzioni che alcuni strati di contadini francesi nutrivano verso i loro fratelli italiani, costretti a fuggire la miseria e il terrore”. E si continua con gli articoli in difesa della pace, con lo smascheramento dell’asse italo-tedesco contro la Francia, gli orrori delle condanne del tribunale speciale fascista, la questione delicata degli “operai fascisti”. A questo proposito si legga la lungimiranza con cui Di Vittorio affronta la questione: “Evidentemente ci sarebbe stato facilissimo di rispondere all’operaio fascista ch’egli ed i suoi amici non debbono e non possono essere fascisti, specialmente in Francia, e che noi non abbiamo da dire loro che una cosa sola: divenire antifascisti. E’ molto facile dire questo. E poi? La nostra esortazione sarebbe forse bastata a far divenire antifascisti quegli operai fascisti? Se la questione fosse così semplice, non sembra ai nostri compagni che essa sarebbe già risolta da un pezzo? Invece, risolta non è. Come risolverla? Questo è il problema”. Non c’è lo spazio per analizzare tutti gli argomenti affrontati da Di Vittorio nei suoi 146 articoli ma va sottolineato il contributo analitico di Giuseppe Bernardo Milano, dell’università di Bari, che fa il punto sulla storia del giornale parigino. Infine, la statura di Di Vittorio ci obbliga anche a dire qualcosa sulla memoria che resta e sull’uso che se ne sta facendo, per esempio nella divittoriana Cerignola. La statura del personaggio impone la messa al bando di qualsiasi forma di dilettantismo, opportunismo e localismo. Ci riferiamo al restauro più che discutibile del Murale Di Vittorio rimesso su da una distruzione operata da una sciagurata giunta di sinistra negli anni 80 del secolo scorso. Un’operazione sacrosanta (tra l’altro cavallo di battaglia negli anni scorsi del nostro giornale), sarebbe stata quella del recupero e restauro, ad uso di studio, dentro una grande struttura al coperto dedicata al sindacalista. Invece c’è un maldestro lavoro, piazzato in una rotonda ad uso di automobilisti distratti e di qualche curioso impossibilitato a leggere le storie “descritte” in quel murale. Una leggerezza colpevole sul piano artistico e quasi un’offesa alla profondità di azione e pensiero di Di Vittorio.