Ci dissero che Stefano si era spento, così, come se fosse una cosa normale. I miei genitori ed io ci trovammo all’improvviso catapultati in un incubo. Stefano era morto, senza che noi potessimo sapere che stava così tanto male. Quello che restava di mio fratello era il suo povero corpo martoriato. Sul suo volto tumefatto l’immagine della sofferenza del suo calvario, dei dolori atroci. Della totale solitudine che ha avvolto la cosciente consapevolezza che stava morendo. Senza che a nessuno importasse niente. C’era un certificato di morte naturale, ma davanti ai nostri occhi… Stefano.

Ogni nostra domanda era destinata a cadere nel vuoto. Morte naturale. Punto. Quella sera stessa ho deciso che non sarebbe stato così. Ho cercato l’avvocato del ‘caso Aldrovandi’.

Mi è stato spiegato quello che immaginavo già: se non avessimo reso pubblico quanto accaduto avrebbero fatto di tutto per archiviare. Rendere pubblico è la sola cosa che apre una flebile speranza per un percorso di verità e giustizia. Molto spesso però purtroppo per queste morti non ci sono grandi titoli sui giornali, al massimo un trafiletto, a volte carico di insulti. L’opinione pubblica si è interessata moltissimo al ‘caso Cucchi’, da subito. È divenuto motivo per tornare a parlare in maniera forte di temi come carceri e reato di tortura.

Ma non dimentico che in quei primissimi giorni eravamo in quattro: io, il mio avvocato Fabio Anselmo, Checchino Antonini e Cinzia Gubbini, che allora scriveva per il manifesto, gli stessi che hanno fatto conoscere all’Italia come era stato ucciso Federico Aldrovandi. Il manifesto, così come Liberazione, giornali che hanno fatto tanto, hanno fatto la differenza per far conoscere la verità sulla morte di Stefano Cucchi. Questo è per me il manifesto: un giornale che va sostenuto per amore della verità e della giustizia.