Nell’idea della grande metropoli africana condivisa da Simon Njami e Elena Motisi, curatori della mostra African Metropolis. Una città immaginaria al Maxxi – Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma (fino al 4 novembre) in cui l’architettura è una stratificazione di esperienze, suoni, colori, odori c’è anche un bel salotto – Le Salon Bibliothèque – dove potersi sedere, parlare, sfogliare un libro. Libri che hanno un valore aggiunto, quello di essere stati scelti dagli stessi artisti. Hassan Hajjaj (Larache, Marocco 1961, vive e lavora tra Londra e Marrakech), autore di quel salotto accogliente (entrato nelle collezioni del Maxxi) ha scelto Leone l’Africano di Amin Maalouf, anche se dello scrittore di libanese ama soprattutto Le crociate viste dagli arabi. Un altro punto di vista per analizzare la storia. Nella sua maniera giocosa e seduttiva, Hajjaj – definito l’Andy Warhol di Marrakech – interpreta il presente, stimolando l’osservatore ad andare oltre l’apparenza.
La carta da parati, ad esempio, ha come pattern reiterato delle coloratissime bottigliette di 7up, così come la scritta in arabo ripetuta sul pavimento che vuol dire stop, con una minima variazione grafica diventa wake, svegliarsi. Con grande spontaneità questo artista nato nella città dove è sepolto Jean Genet (è emigrato a Londra nel 1973), racconta il suo percorso artistico in cui mischia realtà e fantasia, riconoscendo il ruolo di mentore alla curatrice e gallerista Rose Issa che nel catalogo di Dakka Marrakesh (2008), parlando delle sue fotografie, afferma che guardarle è come «leggere una versione divertente di Mohamed Choukri».

A Londra, nel 1984, lei ha aperto il negozio Rap: ci si potevano trovare abiti di Westwood e Galliano, ma anche capi di giovani stilisti marocchini. Quanto è stata importante quest’esperienza nella costruzione del suo universo artistico?
È stata la mia università di vita, perché avevo lasciato la scuola senza conseguire alcuna qualifica. In quegli anni stava nascendo la streetwear e viaggiavo molto tra New York e Parigi alla ricerca di giovani stilisti, anche se vendevo pure capi firmati. Rap era un luogo d’incontro, vicino c’era anche un negozio che vendeva dj music. Vi organizzavo mostre e party underground. È lì che ho incontrato Andy Blake, che iniziò la sua carriera come stylist, con cui iniziai a collaborare. E Zak Ove, che faceva video musicali divenendo uno dei miei migliori amici. Comprai la macchina fotografica nel 1999, ma la usavo solo per hobby. Imparavo aspetti come la promozione del lavoro e a relazionarmi con la gente e, senza che me ne accorgessi, tutto questo ha avuto un impatto sul mio lavoro. Inoltre, potevo avere due punti di vista diversi, come marocchino e come londinese. È stato un periodo molto eccitante, Londra stava cambiando molto e gli immigrati potevano vivere in maniera nuova: creavano la loro musica, sceglievano gli abiti che volevano indossare, il cibo che volevano mangiare. Era proprio un melting pot.

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Con la crisi del ’92 ha dovuto chiudere il negozio. Quando ha scoperto la fotografia come nuova possibilità?
Quando ho chiuso il negozio si è chiusa un’era. È stato un momento da celebrare. Penso che ogni 5/7 anni sia necessario cambiare o aggiornare quello che si fa. Ma è stato anche difficile: avevo perso uno stile di vita, pure dal punto di vista finanziario. Nel ’93 nacque mia figlia e cominciai a tornare in Marocco con più regolarità, iniziando a fotografare. Nel 2000, esposi a Marrakech immagini del suq. Alessandra Lippini che lavorava come stylist, aveva un riad a Marrakech – Ministero del gusto – e mi invitò a fare una mostra. Con mia sorpresa vendetti qualche pezzo ed ebbi un riscontro positivo dalla stampa marocchina. Un mese dopo l’inaugurazione lei mi telefonò dicendomi che dovevo tornare perché c’era una persona che voleva incontrarmi. Quella persona era Pino Daniele: era andato in galleria, aveva comprato un mio lavoro e mi voleva invitare a pranzo. Dopo sei mesi mi richiamò. Voleva usare la mia immagine per la copertina dell’album Medina e mi invitò a Roma per il lancio del disco, chiedendomi di stampare 150 fotografie da inserire nella cartella stampa. Stava succedendo qualcosa!

L’approccio al soggetto – personaggi in «djellaba», donne con il velo, «babouches», gente qualunque – è di natura antropologica. L’attraversamento in una chiave personale di «fantasia orientalista», giocosa e coloratissima, permette di sfidare gli stereotipi?
Nel 1997, o forse era il ’98, un mio amico inglese doveva fare un servizio fotografico a Marrakech per Elle e mi chiese di dargli una mano con la lingua. Aveva il suo team e io non dovevo fare altro. Durante il lavoro, me ne stavo seduto da una parte. In quel momento cominciai a pensare: stavano usando il Marocco come sfondo esotico, perché gli stylist erano europei, come tutta la squadra di assistenti. Allora perché – ragionai ancora – non presentare io stesso la mia gente come se fosse una fantasia, un incontro tra est e ovest? Parlo del Marocco, ma l’operazione resta valida per qualunque altro paese. Ovunque, c’è questa fusione tra tradizione e mondo occidentale con le grandi firme come Gucci, Prada e chi non si può permettere i capi originali, indossa quelli contraffatti. Ciò che mi attrae delle persone è l’energia, non m’importa se chi fotografo è un lustrascarpe, un cantante o un designer. Diversamente da quel servizio fotografico di Elle, ho voluto rappresentare le persone che vivono in quello sfondo, a cui appartiene quel posto, assicurandomi in qualche modo di proteggere Marrakech stessa dall’essere un luogo di moda passeggera.

L’ambiguità dell’apparenza della «fake reality» si esprime anche attraverso il linguaggio della fotografia, ricreando in studio set con cui lei restituisce l’idea della spontaneità dell’istantanea e della street photography?
In occidente una donna che indossa il velo nero può essere vista come minacciosa, ma se indossa un velo firmato da Louis Vuitton diventa molto più accettabile, perfino divertente. Esprime anche il concetto di consumismo ed è un’immagine diretta. Riguardo le mie foto di studio, quando le realizzai mi venne in mente che avevo ne solo tre della mia infanzia in Marocco, fino all’età di 13 anni. Nel mio paese c’erano tre fotografi, un fotografo di studio dove andavi vestito bene per il ritratto di famiglia; un altro che sostava dove si passeggiava di sera e possedeva oggetti come il cavallo di plastica o l’automobilina di metallo: ci si poteva vestire da cowboy per farsi ritrarre. Il terzo, invece, d’estate andava sulla spiaggia con il suo apparecchio, fotografava la gente e gli consegnava un bigliettino, poi dopo qualche giorno le foto erano pronte e si potevano ritirare. Il primo era il più classico, un po’ come Malick Sidibé per il quale nutro grande ammirazione. Le sue foto sono diventate importanti perché documentano un’epoca.

Quando è entrata la tridimensionalità nel lavoro fotografico, con l’inserimento di oggetti – lattine, scatole di fiammiferi, bottigliette di khol?
A Londra, specie fino ai primi anni ’80, se nominavi il Marocco voleva dire cammelli, sabbia, kaftani. Ecco perché, fin dai miei primi lavori, ho voluto mostrare qualcosa di marocchino che fosse molto cool. All’inizio stampavo le foto su tela: diventavano oggetti tridimensionali, era un modo più diretto per coinvolgere il pubblico. Poi ho deciso di portare gli oggetti stessi all’interno della cornice, giocandoci come con i marchi. Un modo per affermare il mio lavoro di artista, in un momento in cui la fotografia non era ancora considerata pienamente arte contemporanea. Era come creare dei mosaici intorno alla fotografia che dimostravano l’identità della persona che presentavo. Avevo tanti amici che, come me, provenivano da culture diverse – Nigeria, Brasile, India – e chiesi loro di posare come delle star marocchine. Era come un palcoscenico in cui, attraverso la fotografia, volevo raccontare il mio viaggio in una nuova cultura, in un nuovo paese.