Siamo agli accordi finali per garantire un pareggio onorevole. È un gioco terribile che si ripete. Ancora una volta contiamo i morti, le case e le infrastrutture distrutte a Gaza; proprio come nel 2018, nel 2014 e nel 2008 «ci sarà la ricostruzione, interverrà la comunità internazionale, con il sostegno di…». Un alto generale israeliano ha spiegato al popolo che l’esercito ha assicurato un futuro di cinque anni di tranquillità. Nel sud del paese, molti cittadini chiedevano di continuare l’operazione militare «perché le promesse di anni di pace si susseguono ma siamo noi a pagare il prezzo».

Commentatori e politici hanno sottolineato più e più volte gli errori di Israele che hanno portato all’escalation e alla guerra. È necessario ricordare alcuni elementi molto più importanti che forse permettono di vedere meglio gli aspetti tragici delle mini-guerre che riprenderanno tra poco. Nel 2005, quando il premier Ariel Sharon annunciò il ritiro da Gaza, la destra si oppose con veemenza: ottomila coloni israeliani erano già insediati su un quarto del territorio di Gaza, occupata militarmente, e si accaparravano il 30% dell’acqua disponibile. La destra era furiosa, i liberali e i moderati festeggiavano; a sinistra solo noi, quattro gatti «folli», ci opponevamo al ritiro. Perché? Semplicemente perché lo stesso entourage di Sharon lo considerava la mossa migliore per assicurare l’annessione della Cisgiordania. E si profilava come inevitabile la vittoria elettorale di Hamas, la quale si intestava il ritiro da Gaza: «Lo abbiamo ottenuto grazie alla forza e all’eroismo della nostra organizzazione».

Per la destra israeliana, Hamas è una garanzia. «Non trattare con i terroristi» è una formula che piace anche all’Occidente. E l’organizzazione islamista dopo aver cacciato la leadership locale dell’Olp da Gaza ha potuto stabilire un governo senza antagonisti, sostenuto da vari attori internazionali e da forti gruppi estremisti. Hamas non aveva interesse ad alimentare l’escalation che ha portato alla guerra, nondimeno i passi compiuti da Israele e la cancellazione delle elezioni da parte di Abu Mazen hanno fruttato all’organizzazione un vantaggio politico che ora non solo l’Autorità palestinese ma anche Giordania, Marocco e altri cercheranno di contenere.

Déjà-vu: fondamentalisti di tutto il mondo unitevi! Tutto è già stato detto e tutto si ripete. Israele: «I nostri risultati sono formidabili, abbiamo distrutto migliaia di razzi, eliminato 200 terroristi fra i quali diversi leader; fra le donne uccise c’erano di sicuro diverse militanti, e quanto alle decine di bambini, sono in realtà vittime di Hamas e della Jihad che piazzano le loro basi militari in mezzo alla popolazione civile…». Governo ed esercito sono «tanto umani», il nostro premier esalta l’esempio di quel pilota che, avendo individuato alcuni bambini intorno al bersaglio obiettivo, è tornato alla base senza bombardare. Dal canto suo, Hamas gonfia il petto: «Abbiamo lanciato migliaia di missili. Abbiamo tenuto alto l’onore. È stato un risveglio, gli israeliani hanno visto che siamo i veri difensori della moschea di al Aqsa, i nostri razzi sono arrivati fino a Tel Aviv, abbiamo impedito la confisca delle case a Gerusalemme, siamo stati il detonatore di forze latenti anche nella società palestinese in Israele».

Il premier Netanyahu era disposto ad andare avanti con la mini-guerra, ma la forte reazione internazionale lo ha frenato. Non è stata abbastanza forte da impedire l’azione militare o da fermarla in un giorno o due, ma avrà un impatto di lungo termine. Joe Biden ha già scontentato il governo israeliano, per via dell’iniziativa che ha portato al ripristino dell’accordo sull’Iran nonché del suo atteggiamento freddo nei confronti del premier Netanyahu. L’opinione pubblica mutevole e l’ala progressista del suo partito hanno fatto pressione sul presidente statunitense, il quale avrebbe voluto in realtà concentrare i propri sforzi sull’enorme piano di ricostruzione e sulla politica interna.

Netanyahu, che pure conosce bene l’inglese, non aveva capito bene i primi due appelli di Biden che lo esortava a moderare l’attacco e ad arrivare al cessate il fuoco. Poi da Washington sono stati più chiari. La fine delle operazioni militari è diventata inevitabile quando Biden e i Paesi arabi – Giordania, Egitto, Emirati – hanno detto basta. Certo, Hamas avrebbe voluto un cessate il fuoco con condizioni stringenti che però non solo Israele ma nemmeno Giordania, Marocco e Arabia Saudita potevano accettare senza veder sminuito il proprio ruolo rispetto ai luoghi sacri dell’islam.

Follia è ripetere più e più volte gli stessi errori. I governanti israeliani sono disposti a continuare la linea che porta periodicamente a sanguinosi e tragici scontri armati, una politica anti-pace che possa rendere inevitabile l’annessione graduale della Cisgiordania. L’alternativa sarebbero negoziati seri con i palestinesi: la via politica. Quanto ad Hamas, i danni e i morti non sono così gravi dal momento che l’organizzazione esce apparentemente rafforzata da tutte le guerre passate e presenti.

La sua presenza si consolida anche in Cisgiordania. Il sostegno internazionale porterà a un po’ di ricostruzione, debole palliativo in un situazione che vede decine di migliaia di persone senza casa, senza acqua e senza elettricità, senza cibo – per non parlare delle famiglie uccise dagli attacchi israeliani. L’unica alternativa a questo scenario è un accordo palestinese-israeliano che, tuttavia, sembra molto lontano, in questi giorni cupi. Solo le pressioni internazionali possono favorirlo.