Mathieu Amalric si conferma ancora una volta uno dei registi più vertiginosamente liberi del cinema contemporaneo. Come dire che i suoi precedenti lunghi non erano affatto il risultato fortuito di qualche alchimia casuale. Non bisogna necessariamente conoscere a menadito il canone di Barbara per soccombere felicemente di fronte alla inaudita libertà attraverso la quale Amalric crea un infinito gioco di seduzione e rifrazione attraverso la quale l’immagine della cantante francese progressivamente scompare. In olimpica e spericolata controtendenza rispetto alle regole del biopic musicale, Amalric elabora un progetto d’immagine che si rivela progressivamente vuota.

L’immagine non contiene i segni di Barbara, ma solo le tracce del lavoro necessario per iniziare a pensare la possibilità di un film. Amalric crea uno spazio filmico assoluto nel quale il reale e il cosiddetto profilmico s’intrecciano e si contaminano attratti dalla vertigine del vuoto. L’archivio, la memoria alternativa della storia, dialoga con la possibilità della ricostruzione e la fallibilità e fragilità della memoria.

Il regista del film nel film viaggia come un sonnambulo fra i mille piani che il lavoro sul set evoca moltiplicando i gradi di realtà. Evidentemente memore di Ne change rien di Pedro Costa, magnifico poema-saggio su Jeanne Balibar passato qualche anno a Cannes, Amalric, affidando proprio alla Balibar il (non)ruolo della protagonista crea un corpo-fantasma di grande complessità. Come già nei precedenti lavori dell’attore-regista, l’ombra di John Cassavetes s’insinua (in)indiscreta nelle strategie attraverso le quali il film corteggia l’immagine della Balibar: una devozione che gronda stupore e ammirazione e si traduce nell’autonomia con la quale Amalric costruisce i suoi frammenti di racconti possibili. Come se il film non fosse altro che filamenti di una lotta vana strappati alla notte e al sogno.

E non un caso che il film si chiuda in un’ulteriore rifrazione – Barbara osserva dei musicisti reinventare sue canzoni – e la musica si rivela, ancora, «l’in sé di ogni fenomeno», come suggerisce Schopenhauer. Nell’arco di tre lungometraggi – e una miriade di corti e doc – Mathieu Amalric è riuscito a inventarsi una libertà espressiva e – soprattutto – una leggerezza inaudita di cui Barbara, apertura del Certain regard, offre una nuova ed entusiasmante formulazione.