C’è qualcosa che non funziona al Lido, la programmazione intanto nonostante la nuova sala ricavata nel Casinò – piccola piccola eppure scelta per proiezioni evento, tipo l’Heimat di Reitz o il Bertolucci on Bertolucci di Luca Guadagnino e Walter Fasano, da cui la maggior parte degli accreditati sono rimasti fuori. Prendiamo la sezione Orizzonti. Negli anni passati era diventata un laboratorio di ricerca in cui si sperimentavano le tendenze negli immaginari mondiali.

La direzione Barbera ne ha cambiato il segno, trasformandola in una specie di Certain Regard cannois, dove di solito si trovano film di esordienti o quasi o film di autori affermati «a rischio» vedi il magnifico L’Inconnu du lac (tra poco sui nostri schermi grazie alla lungimiranza di Teodora Film) o l’ultimo Lav Diaz. Però la griglia del selezionatori non li penalizza come qui dove le proiezioni, almeno per gli «addetti ai lavori», sono messe in alternativa ai film in concorso, che sappiamo essere «obbligati», cancellando così gli Orizzonti dai media. È uno dei molti esempi, non l’unico, che ci riporta al problema degli spazi; fa uno strano effetto guardando le schegge dei filmati Luce sui festival di Venezia nel tempo, vedere che in fondo pochissimo è cambiato delle strutture festivaliere veneziane.

Inoltre a differenza di Cannes – dove peraltro anche il Palais comincia a essere vecchiotto e inadeguato – alla Mostra le sezioni anche autonome, vedi le Giornate degli autori e la Settimana della critica (ieri c’è stata la quasi rissa per entrare a Il mio nipote Zoran) sono tutti insieme. Una follia.
Racconta Amos Gitai che Ana Arabia prende spunto da molte cose: un fatto di cronaca accaduto in Israele, la storia di una donna musulmana che, curata per una mancanza di calcio, rivela al medico di essere nata a Auschwitz e di essere perciò ebrea. L’idea di lavorare ancora una volta tra quelle comunità in cui ebrei e arabi vivono insieme.

E il desiderio di narrare un luogo, che è la favela vicino a Tel Aviv, in cui si ambienta il film, dove la speculazione cerca di ripulire la zona cacciando i palestinesi per lasciare posto alle case della classe media, o ai palazzoni in cui si stipano coloni e palestinesi immigrati. Ma soprattutto Ana Arabia, punta magica di un concorso finora poco seducente, nasce dalla poetica del regista che in tutti i suoi film ha percorso la contraddizione del suo paese, Israele, nella memoria e nel presente, rendendola cifra cinematografica. E non si tratta semplicemente del «conflitto» tra Israele e Palestina, Gitai lo sguardo lo spinge sempre più lontano, oltre i confini, in Europa e nel mondo. Un’ «andata e ritorno» che, a ogni passaggio, allena e mette alla prova le sue immagini.

Yael, una giovane giornalista (l’attrice Yuval Scharf, che ha conquistato il Lido) arriva in un’enclave tra Jaffa e Bat Yam, in Israele, per intervistare Youssef, il marito arabo di una donna ebrea divenuta musulmana. Ma come varca l’inquadratura di quella stretta soglia – un confine invisibile e fortissimo – si trova in un luogo altro. Nel cortile verde di limoni, piante, orti si intrecciano le storie di Youssef, Miriam, Sarah, Walid, Jihad, e di altri, gli amici, i vicini di casa, ognuno con i suoi sogni traditi, le sue amarezze, i ricordi piccoli e preziosi di incontri indimenticabili. Che si dipanano lentamente, nel susseguirsi quasi poetico delle parole a cui è affidata la narrazione, nei passaggi dagli uomini alle donne, tutti raccolti come in un coro, che Yael compie nella sua ricerca. La ragazza fa domande che rimangono senza risposta. E riceve invece altre cose, altre storie: Miriam parla della madre, della sua scelta coraggiosa, fatta per amore anche se tutti non l’avevano mai accettata fino in fondo.

Era rimasta per sempre la nemica, difficile dimenticarlo. Sarah è ebrea, si è rifugiata tra loro quando Jihad, il figlio di Youssef, l’ha cominciata a picchiare. I figli più grandi dell’uomo non la volevano, pure lei era un corpo estraneo tra loro, ostile, ma oggi preferisce dimenticare e lasciare colare il tempo del dolore piano.

Ho trovato qualcosa di incredibile, dice Yael al suo caporedattore.Qualcosa di incredibile. La macchina da presa segue i personaggi, li carezza, quasi come in una danza, morbida, pudica, rispettosa delle loro intimità, Gitai ha girato l’intero film, circa un’ora e mezzo, in piano sequenza con una Alexa, riflettendo lo sgranarsi delle ore nei passaggi di luce che pian piano cambiano anche la prospettiva dei personaggi. È un regista con un potente senso della messinscena, del cinema e dei suoi movimenti, ma come sempre nei suoi lavori, questa scelta non è una semplice dichiarazione di estetica, e meno che mai l’espressione di un autocompiacimento. Non si guarda filmare, Gitai né produce autoritari, che impongano a noi spettatori una visione del mondo, o la sua ideologia.

All’opposto il suo cinema è politico per la libertà radicale che oppone gli schematismi, e lo è in ogni scelta di regia, appunto, nel modo con cui interroga costantemente l’immaginario.
Lo spazio comune di un’utopia, anche se è forse una piccola realtà, di vita insieme nel rispetto delle differenze passa dunque nel flusso ininterrotto della macchina da presa. Un respiro unico, che unisce i frammenti di un mondo separato, senza soffocarne uno a scapito dell’altro, ma lasciando a ciascuno il tempo necessario a divenirne parte. La Storia, e la guerra quotidiana, sono tracce disseminate, accenni a qualcosa che appena oltre la soglia preme, ed è gigantesco, divorante come lo skyline che ci rivela l’ultima inquadratura. I grattacieli giganteschi di un’occupazione che ha destinato un popolo a sparire, condannando così anche l’altro. Nel suo piano sequenza quasi straubiano, Gitai lascia alla parola la forza dell’evocazione, che l’immagine non illustra né asseconda. Ascoltiamo i suoi personaggi parlare, voci di un altrove, di una dissonante resistenza.