Alias

Un giamaicano a Brixton

Un giamaicano a BrixtonLinton Kwesi Johnson

Linton Kwesi Johnson raccontato nel libro «Inglan Is a Bitch». La rilevanza artistica e politica del poeta del reggae britannico

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 16 gennaio 2021

Linton Kwesi Johnson ha sempre avuto un’inaspettata considerazione in Italia, tra articoli, concerti, libri (vedi la recente pubblicazione di Agenzia X, con Inglan is a Bitch di Mara Surace che ne riprende le fasi salienti della vita). Inusuale per chi ha sempre parlato di una realtà molto specifica (quella inglese in cui è cresciuto), in un linguaggio incomprensibile (un creolo giamaicano broken english).

Ma la fascinazione che ha sempre esercitato il suo profilo ha superato facilmente ogni incomprensione, unita all’apporto musicale di Dennis Bovell, vero maestro del dub e del reggae, colonna sonora delle poesie di Linton. Grazie anche a testi espliciti, chiari, senza giri di parole, che fotografano i tempi e gli ambiti in cui sono stati scritti e che si sono sempre avvalsi di un tagliente senso dell’ironia.
Il suo concetto politico di «democrazia socialista» lo pone orgogliosamente in prima linea a fianco dei più deboli, delle vittime delle ingiustizie sociali e della brutalità della polizia, felice ed entusiasta nel vedere il recente sollevarsi della popolazione americana (e non solo) intorno al movimento del Black Lives Matter: «Sono al settimo cielo per ciò che sta succedendo tra i giovani. Vengo da una generazione ribelle di attivisti che volevano cambiare il paese e sembra che questa nuova generazione stia proseguendo di nuovo su questa strada. Sono così felice di essere vivo per vederlo succedere. C’è stata una risposta enorme anche qui in Inghilterra perché il razzismo è nel sistema legale e c’è impunità nella polizia. Direi che il razzismo è parte del dna culturale della Gran Bretagna».
Allo stesso modo è adamantino nella visione politica sulle scelte a livello mondiale e sulle prospettive riservate al popolo: «Trovo decisamente ironico che metà del mondo si preoccupi del disarmo nucleare mentre il resto del globo non è nemmeno consapevole che esista il problema. Le loro priorità hanno a che fare con la sopravvivenza giorno per giorno: trovare cibo, vestiti e un posto dove vivere, confrontandosi sempre con alcuni dei regimi più oppressivi e crudeli del mondo, massacri e fame».

L’INFANZIA
Nato in Giamaica nel 1952, trasferitosi in Inghilterra all’età di 11 anni, travolto da una dimensione completamente nuova e altrettanto ostile: «La mia esperienza è il frutto di un’infanzia tropicale e contadina prima e della vita di una città industriale dove i neri vivono in condizioni coloniali, poi. Quando arrivai a Brixton mi aspettavo grandi strade, case belle, gente ricca. Arrivavo da un piccolo paese rurale e sbarcare a Londra fu un grande shock. Fui sorpreso nel vedere bianchi che pulivano le strade, in Giamaica erano tutti ricchi e li chiamavamo signori o padroni. Anche le case mi sembravano tutte fabbriche con i comignoli che buttavano sempre fumo. Lo stesso senso di straniamento, scollamento, in costante posizione di difesa contro la realtà circostante, che troviamo nella maggior parte degli immigrati dalle West Indies, soprattutto dopo l’indipendenza ottenuta dalla Giamaica dal Regno Unito nell’agosto del 1962 (vedi l’autobiografia di Neville Staple degli Specials che riferisce le stesse amare sensazioni o il brano B.L.M. dall’ultimo album della band in cui il chitarrista Lynval Golding canta “Ricordo il primo momento di gioco a scuola/un ragazzo mi urla/Hey bastardo negro vieni qui/Ancora non riuscivo a crederci/Benvenuto in Inghilterra” e appena prima la canzone dice “Nel 1964 mio padre gridò alla Giamaica: figlio vieni con me/Così salpai sulla nave Askena e arrivai a Northampton in una fredda notte d’inverno/si congelava/Volevo dire al capitano di riportarmi in Giamaica/Ma invece ero qui per restare”)». Una vita dura, costantemente esposto a un razzismo sempre più esplicito e arrembante, la creazione di ghetti, la palese separazione culturale e sociale tra bianchi autoctoni eredi dell’Impero e quelli che sono stati sudditi fino a poco tempo prima. «Ho fatto la mia prima esperienza col razzismo a scuola. Credevo veramente che i bianchi fossero brava gente, invece i ragazzini mi chiamavano sporco negro e gli insegnanti facevano commenti razzisti tipo:“Dove credi di essere? Nella giungla?”».
Linton studia e si laurea in sociologia, approfondisce l’impegno politico e culturale, nel 1973 entra a far parte delle locali Black Panthers, lavora e incomincia a impegnarsi nella scrittura, anche musicale, con la quale approda a Melody Maker, New Musical Express, Black Music, oltre a scrivere note biografiche per gli artisti reggae della Virgin Records. Ma è la poesia che lo attrae maggiormente. E diventa il tratto distintivo della sua forma di creatività, destinata ad essere unica. Il suo è un linguaggio duro, aspro, abrasivo, che fonde cultura caraibica con una cupa visione di un’Inghilterra industriale e spietata che sta per entrare nei terribili anni thatcheriani. Il linguaggio attinge dal Patois giamaicano, imbastardimento dell’inglese, mischiato a parole e assonanze creole. Ma ha bisogno di una musica di accompagnamento, ovviamente il reggae, a cui provvederà il grande Dennis Bovell.

RESISTERE
«Non sono un musicista, sono un poeta che però lavora in una tradizione dove la musica e le parole sono una parte integrante e le influenze maggiori sono caraibiche e di poesia orale. Le mie esperienze di poeta sono frutto di un’infanzia contadina. Nei Caraibi i bambini conoscono centinaia di giochi e storielle in rima. Musicalmente sono stato influenzato da molte forme sonore, prima fra tutte la Kumina, di matrice africana e quelle di tipo afro protestante, battista e pentecostale. In Inghilterra ho trovato rock e r’n’b. Quando incominciai a scrivere, la musica si insinuava tra le righe della poesia, le parole mi venivano sempre in mente accompagnate da un giro di basso. Nel reggae il basso dà anche la melodia, non soltanto il ritmo e quando compongo ho sempre dentro un giro di basso. Partendo da questo, aggiungo la batteria e quindi decido il tempo. In seguito decido se metterci delle tastiere, dei fiati o qualche assolo di chitarra e ne discuto coi musicisti durante la registrazione».
Dread Beat an’ Blood è il suo primo successo letterario, nel 1975, e sarà la base per il fulminante, omonimo, esordio discografico del 1978 tra heavy dub, reggae e parole pesantissime. «Per me scivere poesie è un atto politico. Un modo di articolare la rabbia e il dolore della mia generazione, cresciuta come gioventù nera in un ambiente razziale ostile… i bambini e gli insegnanti erano razzisti. Ero consapevole che l’educazione era l’unica via d’uscita dalla povertà per uno come me».
Seguiranno album di sempre maggior successo e spessore ma soprattutto di enorme importanza letteraria, che lo consacreranno tra i più rappresentativi cantori dell’Inghilterra dei neri e degli oppressi. In particolare Bass Culture del 1980 con l’immortale e sferzante inno Inglan is a Bitch: «L’Inghilterra è una puttana/non si può evitarlo/dobbiamo imparare a sopravvivere».
«È la cultura popolare giamaicana che mi ha permesso di resistere in Inghilterra. Furono le mie radici e la mia lingua un’arma da usare contro la cultura del razzismo in Gran Bretagna». Negli ultimi anni la sua presenza sulla scena si è sempre più diradata (complici anche seri problemi di salute) ma i semi piantati da anni hanno continuato a germogliare e a permettergli di raccogliere premi, onorificenze, tributi in tutto il mondo. Un nome seminale per comprendere la nascita della commistione tra black music giamaicana e la cultura antagonista punk che sfociò nel 1977 nei primi dischi di band come Clash, Stiff Little Fingers, Ruts.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento