Nel 2015 un incendio al Colectiv Club di Bucarest, scoppiato durante un concerto, causa 27 morti e 180 feriti alcuni dei quali arrivano negli ospedali con ustioni gravissime. Molti di loro muoiono nei mesi successivi, la burocrazia medica rumena non concede o addirittura rifiuta il visto ai pazienti per essere curati in strutture all’estero, e negli ospedali nazionali mancano le attrezzature necessarie, ma soprattutto vengono uccisi dai batteri. I parenti delle vittime e alcuni dei sopravvissuti, come Tedy Ursuleanu, architetto nemmeno trentenne, ragazza bellissima che le fiamme hanno divorato lasciandola senza mani e col volto sfigurato chiedono giustizia, vogliono che il governo, il ministero della sanità, dichiarino pubblicamente le proprie responsabilità. Tedy si è reiventata per combattere il trauma, posa per un fotografo, diventa il simbolo per coloro che cercano di ritrovare le proprie vite.

A RACCOGLIERE le loro istanze c’è un giornalista, Catalin Tolontan, lavora in un quotidiano sportivo, ha già condotto inchieste sulla corruzione nello sport, e non si accontenta della versione ufficiale. Insieme al suo gruppo di lavoro comincia a indagare: cosa è accaduto in quegli ospedali? Perché la gente muore con percentuali così elevate di infezione? Quello che sembra un «caso» o una disgrazia non è forse il segno di una corruzione che ha infettato il sistema? Alexander Nanau, rumeno, filmmaker, decide di seguire Tolontan nella sua inchiesta, Colectiv, presentato ieri fuori concorso – e uno dei film migliori della selezione – ne racconta il processo e gli esiti, non chiusi, affermando attraverso la lotta per la verità del suo protagonista, un senso del cinema del reale.

CHE SIGNIFICA parlare della realtà, affrontare il proprio tempo nei suoi spigoli e nelle sue contraddizioni? Non siamo tra super eroi e nemmeno nello schema di «buoni/cattivi»: quello che il regista cerca è un confronto diretto con il proprio mezzo, il cinema, rispecchiandosi nel lavoro del suo protagonista, giornalista che non si ferma alle «versioni ufficiali» ma che nel proprio mestiere mantiene l’ostinazione di ricerca sul campo, di investigazione in profondità, di incessante sconto col potere in nome della libertà di informare. Così segmento dopo segmento, tra pedinamenti, personale ospedaliero che decide di collaborare, analisi di laboratorio, si scopre che le morti sono causate dall’uso di disinfettanti diluiti fino a essere inefficaci, una pratica che con la complicità e la copertura di politici, funzionari, medici arricchisce le multinazionali come la Hexi Pharma che detiene il monopolio delle forniture. Tutto qui? Non proprio. Lo scandalo costringe alle dimissioni il ministro, ma colui che prende il suo posto anche se per pochi mesi, attivista per i diritti dei malati, si trova davanti una rete di malfunzionamento e di complicità.

Nanau dichiara di avere scelto come riferimento il documentario di osservazione senza interviste o voci off, seguendo i suoi protagonisti da vicino. La sua è una messinscena molto articolata che sposta la «linea» tra documentario/finzione, guarda ai generi cinematografici, ai film di giornalismo investigativo, per costruire la propria lente di realtà: i protagonisti diventano personaggi, sono loro stessi e si fanno espressione di alcuni conflitti e delle richieste della loro società.

E in questa doppia distanza illuminano una realtà che va oltre lo specifico della Romania- e a proposito di sanità pubblica pensiamo alla condizione degli ospedali italiani e ai molti scandali che esplodono ciclicamente – da una parte il ruolo dei media, e dell’informazione tutta oggi sgradita a molti governi in modo più o meno subdolo e aggressivo, dall’altra le crepe tra cittadini e istituzioni, e la fragilità di queste ultime nel tentativo di produrre dei cambiamenti, come l’esperienza del giovane ministro in carica pochi mesi mostra. La ricerca di risposte diviene dunque un gesto di resistenza come per il regista le immagini. Quello che Nanau riesce a ottenere è di porre il proprio film al di là del soggetto «forte», uno dei limiti o dei malintesi di molto cinema cosiddetto «impegnato»: l’esigenza formale è altrettanto importante anzi permette al suo lavoro l’efficacia che produce.

E PER QUESTO la sua presenza è sempre dichiarata, invisibile sullo schermo ma decisa nella scelta dello sguardo, della posizione del regista, della composizione dell’inquadratura, del modo in cui far affiorare la realtà. Documentare è un processo di costruzione, e di ricerca proprio come la sfida del giornalista alla corruzione. E in questo essenziale passaggio gli aspetti intimi di dolore e sofferenza si fanno collettivi, varcano i confini per dialogare col nostro tempo.