Judy Chicago: A Reckoning: un nuovo appuntamento all’Institute of Contemporary Art di Miami (fino al 21 aprile 2019) per la pioniera del femminismo nelle arti visuali, dopo quello di Villa Arson a Nizza, dove abbiamo incontrato una coloratissima e sorridente Judy Chicago (Judith Cohen è nata a Chicago nel 1939, vive e lavora in New Mexico) accompagnata dal fotografo Donald Woodman (suo marito da trent’anni) e dalla curatrice Géraldine Gourbe. Los Angeles, les années cool: Judy Chicago avec Marcia Hafif, John McCracken, Robert Morris, Bruce Nauman, Pat O’Neill et DeWain Valentine è stata un’anticipazione dell’antologica di Miami e, per la prima volta, riuniva anche il nucleo di opere realizzate dall’artista tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, in un dialogo serrato con i suoi colleghi della West Coast.
Allora la scena artistica era stimolante, ma il dominio era maschile: già dai tempi dell’università (si trasferisce a Los Angeles nel 1957 per studiare alla Ucla dove si laurea in arte nel ’62, seguita dal master nel ’64), Chicago deve fare i conti con questa realtà, ma sarà irremovibile nel proseguire le sue sperimentazioni che la porteranno a dichiarare guerra aperta al sistema patriarcale, anche attraverso l’istituzione del primo programma educativo femminista al California Institute of the Arts di Los Angeles, insieme a Miriam Schapiro (Womanhouse, 1971-72), dell’organizzazione artistica femminista non profit Through the Flower (1978) e della realizzazione dell’opera-manifesto The Dinner Party (1974-79), esposta permanentemente al Brooklyn Museum di New York (dono della Elizabeth A. Sackler Foundation for Feminist Art).
A Villa Arson il percorso espositivo prevedeva anche l’esperienza della Feather Room (1967-2018), ricreata per la prima volta nella Galerie Carrée (propone una passeggiata a piedi nudi in un morbido strato di piume bianche, illuminate dai led, una leggerezza che è un atto di resistenza all’aggressività maschilista che domina il mondo esterno. Proprio come nelle opere della serie Purple Atmosphere/Fireworks, realizzata sulla spiaggia di Santa Barbara nel 1969 (preceduta da Orange Atmosphere a Brookside Park, Los Angeles e seguita da numerose altre tra cui Smoke Bodies, Immolation, A Butterfly for Oakland e Be No More al Moma di San Francisco nel 2017 con ghiaccio secco e razzi): Judy Chicago è la prima artista a utilizzare i fuochi d’artificio per le sue esplosioni con polvere pirica. Lì dove il colore rosa (altrove arancione, giallo, rosso, viola, verde) associato al fumo diventa un gesto rivoluzionario di riappropriazione femminile dello spazio e un omaggio rituale alla Grande Madre Terra.

Opere come «Flight Hood», «Bigamy Hood» e «Birth Hood», realizzate nel ’65 dipingendo i cofani delle automobili, dichiarano una loro natura maschile. Si può parlare di riappropriazione al femminile di questi segnali visivi della «car culture»?
A scuola c’erano 250 uomini e io! (ride). Ho imparato tantissimo già quando ero al college, frequentando il Chicago Art Institute dove l’insegnamento era basato sull’esprimere se stessi. Lì ho capito che per me fare arte voleva dire creare oggetti e ho imparato le lavorazioni artigianali. È stato prezioso, perché mi sono aperta a tutte le tecniche: smalto, acrilici, pittura su vetro, pittura su stoffa… Non ho mai amato, invece, la pittura a olio. Dipingendo con la mia immaginazione e i miei colori il cofano della Corvair cercavo di farmi posto all’interno di un ambiente dominato dagli uomini.

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Poi nacquero i lavori molto meditativi come «The Domes» (’68-’71). Qual è il significato della forma della cupola associata agli strati di colore?
Creavo una scala di colori acrilici che spruzzavo con l’aerografo sovrapponendoli, una stratificazione che è una sorta di contenimento del colore stesso.

Anche prima che realizzasse le «cupole», usava una palette minimalista…
Il mio è stato un andirivieni tra pittura e scultura. Avevo fatto il master in pittura e scultura, come si vede in Rearrangeable Rainbow Blocks (1965) un’opera che si può considerare collaborative piece in cui il pubblico è invitato a intervenire riorganizzando, spostando i pezzi e cambiando la visualizzazione. In questo caso, la scala è ridotta. Negli anni 60 per entrare nella scena dell’arte bisognava dipingere come un uomo. Mi stancai e decisi di provare a fare l’artista in un modo diverso, così le forme minimaliste cominciarono a sparire. Realizzai una serie di disegni e dipinti che erano legati all’idea di guardare a uno spazio libero, come in Through the Flower (1973). Anche per questa ho usato i colori acrilici con lo spray, sfondando uno spazio più grande. Era l’epoca in cui avevo iniziato le prime classi dedicate alle donne e sperimentavo molte performance. In questo dipinto ci sono un uso del colore inteso come bagliori, la referenza al corpo e il tentativo di demolire i vincoli di genere. Se si pensa, ad esempio, ai fiori di Georgia O’Keefe sono bellissimi, ma estremamente passivi. Nei miei fiori l’azione è legata al potere. Dando per scontato che le donne siano forti, facevo immagini potenti.

In «Purple Atmosphere» c’è anche l’idea di dare corpo a un elemento intangibile come il fumo…
Ho fatto una trentina di questi «smog pieces». Provavo ad ammorbidire e femminilizzare l’atmosfera. Un’azione impermanente e anti aggressiva di Land Art molto diversa da quella di Robert Smithson o James Turrell. Solo recentemente questi lavori sono stati capiti e messi a confronto con le ruspe di Michael Heizer (nel ’69-’70 realizza Double Negative scavando con le ruspe due solchi di 15 metri nel deserto del Nevada e creando due canyon artificiali solcati dal declivio naturale del terreno, ndr) e i bulldozer degli altri «earth workers guys» che hanno lavorato sulla terra dominando il paesaggio. È stato analizzato quanto questo mio lavoro con i bellissimi fumi colorati che disperdevo nell’ambiente fosse radicale in relazione a quello degli uomini.

In quegli anni c’erano altre artiste – per esempio Carolee Schneemann – che lavoravano sul corpo, sulla sessualità e sul genere. C’era comunicazione tra voi?
Naturalmente conoscevo Carolee e sapevo che le artiste di New York si stavano organizzando, ma lei era a New York mentre io a LA. C’è stata poca comunicazione tra noi, avevo più contatti con Lucy Lippard. All’epoca la scena artistica newyorkese era molto diversa da quella di Los Angeles. Lì c’era il mercato internazionale dell’arte che non esisteva a Los Angeles. Il mio obiettivo, comunque, non era quello di entrare nel mercato, ero veramente focalizzata sul tentativo di creare un diverso contesto per le artiste.

Proprio Lucy Lippard, insieme a John Chandler, nel ’67-68 aveva teorizzato la dematerializzazione dell’opera d’arte, di cui possiamo vedere un riflesso nell’installazione «Feather Room»…
Non ci sono spigoli, ogni superficie è morbida, dolce. È come la forma delle «cupole». È il tentativo di produrre nuovi immaginari senza l’influenza patriarcale. (Ci togliamo le scarpe ed entriamo insieme nella Feather Room). Le piume… sembra che stiano respirando! Non è incredibile? È la prima volta che lo noto.