Da cosa fuggi, e dove cerchi un riparo per l’ansia che ti divora, se sei destinato a portare con te e in ogni luogo la causa del tuo malessere? Così scriveva molti secoli fa Seneca. Marino Magliani, scrittore destinato dai casi della vita a una «fuga senza fine» tra la Liguria ponentina dell’infanzia e l’Olanda della maturità, con il centro di gravità spesso assestato sull’America latina, quel pensiero di Seneca deve conoscerlo bene. Lì sta la ragione di un’ossessione: il ponente ligure dei monti. Non scappi all’imprinting di un paesaggio scabro e severo, aperto ad improvvise illuminazioni di scaglie di sole e al salmastro, subito ricacciate nell’umido greve di valli che sembrano fatte apposta per respingere le persone, e invece sono diventate sedi di paesi impossibili e tetri.

UN TERRITORIO ISPIDO come il dorso di un cinghiale, e graziato, quando meno te lo aspetti, dalla comparsa della folgore argentina degli uliveti sulle fasce di terrazzamento strappate alla verticalità dei monti, dall’intrico dei castagneti nell’entroterra che davano un qualche pane a chi pane non ne aveva e scappava verso l’interno, come un animale selvatico. È la Liguria che ha fatto decantare tante pagine di Biamonti e di Calvino. A Ovest preme il confine di Francia, dove oggi tentano di passare quegli emigranti che qualcuno vorrebbe solo e sempre clandestini.

Marino Magliani, ne Il Cannocchiale del Tenente Dumont (L’Orma, pp. 296, euro 19) ha immaginato che due secoli fa, in quelle vallate contese dal sole radente e dal freddo che infesta di geloni e di piaghe, tre disertori dell’esercito di Napoleone, nell’anno che scandiva un nuovo secolo, il 1800, abbiano detto basta a una vita fatta di fatica dolorosa, ferite, conquiste precarie, grandeur presto rovesciata nel suo contrario evidente di sfacelo purulento.

Uno, il Capitano Lemoine, è un uomo di cultura che poco parla e molto sa, il Tenente Dumont è un sognatore che ama disegnare, Urruti un soldato semplice basco che nella vita ha conosciuto solo violenza, orrori, e la capacità di sopravvivere a tutto. C’è un segreto che unisce i tre disertori nella loro fuga fatta di stasi e marce forzate in cerca di un imbarco attraverso una Liguria fatta di annunci di mare e forre selvagge, canneti, briganti, contadini schiantati dalla fatica e salvifiche apparizioni femminili, l’anello forte davvero di questa catena malata.

IN EGITTO, al seguito del Corso che s’è fatto imperatore, hanno conosciuto l’hascisc e lo stordimento a parziale riscatto di una vita fatta di ordini secchi, fucili da ricaricare e colpi di baionette a straziare le carni altrui. E un dottore di origini olandesi s’è convinto che, col supposto pericolo che l’hascisc dilaghi in Europa, è il caso di inseguire e far parlare, prima della corda al collo, i tre soldati stanchi di guerra.

Il cannocchiale che intitola il tutto, nelle mani del tenente Dumont, alla ricerca del mare di salvezza, diventa una sorta di sguardo lungo e impossibile su un futuro pacificato che appare incrinato e lontanissimo: il rovescio esatto dell’occhio preciso da entomologo del Capitano sulla pullulante vitalità di piante e animali che contagia gli altri due disertori. L’uno pur nella sua ferina volontà di sopravvivenza, l’altro nella capacità di intuire e fissare la bellezza anche dove la bellezza è un incidente della storia.

Ancora una volta, come in altri suoi romanzi più «storici», Magliani riesce a tenere assieme il filo della storia, la trama individuale, e il suo dirimente filtro antinostalgico per una natura, quella dei suoi luoghi d’origine, madre e matrigna al contempo. Il tutto con una scrittura che ha la poesia della precisione, nella precisione dell’ingranaggio narrativo, e la precisione misteriosa della poesia.