Adriano Olivetti ha creato la via per il fordismo dolce, scrive Marco Revelli in un libro curioso e sperimentale con Aldo Bonomi e Alberto Magnaghi Il vento di Adriano (DeriveApprodi, pp.120, euro 12) dedicato all’«attualità inattuale» dell’industriale visionario. Imprenditore di successo, lontano dal capitalismo della Fiat che incarnava il modello hard del fordismo: militaresco, onnivoro, imperialistico, Olivetti ha promosso l’idea di un’impresa che vive in osmosi con il territorio grazie a un patto politico e civile. Queste caratteristiche lo rendono oggi il testimone di una sensibilità che gli autori del libro proiettano sulle figure del lavoro autonomo (i freelance); dell’«economia della condivisione» (i makers o i coworkers); sui costruttori di comunità sociali e ecosistemi civili; sulle lotte per i beni comuni o per la rigenerazione urbana e territoriale; sui giovani precari che ritornano nelle aree interne abbandonate dove avviano esperienze di «welfare di comunità».

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L’associazione tra Olivetti e queste figure emergenti può sembrare singolare. Olivetti è pur sempre un imprenditore, noti sono i limiti paternalistici e olistici della sua teoria della «comunità», ha rappresentato una tradizione culturale isolata rispetto al comunismo e al cattolicesimo. Nell’Italia di Renzi il suo socialismo anti-statuale e il suo liberalismo eretico rischiano di essere pallidi ricordi di un lontano passato. L’espressione «vento di Adriano» va intesa come una metafora che indica una tradizione italiana ancora viva. Per gli autori del libro, infatti, i coworkers, i freelance o i cittadini che hanno una coscienza civica e ecologica sono gli attori contemporanei della costituzione civile fondata sull’auto-governo dei territori, sul buon governo delle città, sulle reti delle istituzioni di prossimità e un ripensamento dei «corpi intermedi». Una costituzione a suo tempo intuita e praticata anche da Olivetti in un modo di produzione molto diverso dal nostro.

Bisogna intendersi sul significato di «corpo intermedio». Il libro non la confonde con la mediazione sociale di tipo fordista-keynesiana, quella cinghia di trasmissione che legava il sindacato al partito e allo Stato, oppure le organizzazioni corporative e di categoria alla rappresentanza politica. Questa «società di mezzo» sarebbe creata dal «fare in comune» dei nuovi soggetti del lavoro indipendente e dalla partecipazione cittadina. Insieme, questi fattori potrebbero dare vita a una nuova rappresentanza che articola i flussi globali con i sistemi locali. In questa cornice, il territorio si farebbe piattaforma delle reti e dei flussi produttivi, sociali, civici. In Magnaghi questa visione diventa una teoria del «bioregionalismo urbano» basato sull’auto-governo e alimentato da comunità emergenti, ecologiste e programmatiche. Gli esempi di Magnaghi sono ampi: la villa-fattoria di Mondeggi a Firenze, atelier come Macao a Milano e l’Angelo Mai a Roma, l’ex fabbrica dei treni notte «Officine zero» occupata a Roma, le campagne a difesa dei territori contro le speculazioni. Sono forme di «retroinnovazione», scrive Magnaghi, utili a sovvertire l’immagine della città trasparente, interconnessa, riservata ai proprietari e al consumo delle classi «creative» della smart city.

Il Vento di Adriano porta molto lontano dall’imprenditore di se stesso, l’immagine sociale di riferimento per ripensare oggi la città. Magnaghi pensa invece a un soggetto attivo, capace di sviluppare strategie di convivenza nella cooperazione sociale, adattando la logica reticolare della rete alla creazione di nuovi «ibridi» organizzativi e istituzionali nei territori.
Questo ideale umanistico di convivenza, basato sulla crescita di comunità umane e civili dovrebbe tuttavia confrontarsi con le insidie del neoliberismo e la sua filosofia del «capitale umano». Senza una critica di questo discorso concretissimo si creano comunità in cui il desiderio è il riflesso degli istinti individualistici, proprietari, securitari diffusi. Senza contare che la creazione di una nuova «società di mezzo» dovrebbe prima confrontarsi con la «società di mezzo» di Carminati e Buzzi, cioè la sussunzione del «principio istituente» nella corruzione sistemica della politica e del sociale.

Come può il «fare in comune», a cui il libro fa appello, diventare quella che Giacomo Beccattini definì una «coralità produttiva e civile»? Ripartire dalla vita dei singoli e interrogarsi sui diritti fondamentali, dentro e fuori il lavoro, ad esempio. Il Vento di Adriano può essere letto in questa direzione, anche se non approfondisce il problema delle rivendicazioni dei diritti sociali.

Nell’ampia letteratura che oggi si occupa di «innovazione» è raro trovare una prospettiva che non si accontenta dell’evocazione delle buone pratiche istituzionali o del galateo del politicamente corretto. Si può bere il vino buono, fare la cosmesi ai borghi e decorare il centro delle città come bomboniere, ma senza questi diritti il bello resterà appannaggio degli imprenditori degli stili di vita e dei brand, non di chi produce il suo valore e lo alimenta con la cooperazione o la condivisione. Introdurre possenti dosi di solidarietà, unendo la coscienza dei luoghi alla coscienza di classe, i beni comuni all’esigibilità dei diritti, potrebbe essere il granello di sabbia che interrompe il sistema dell’auto-sfruttamento.