Fratello il Manifesto. Lo era stato fin da quel “fascione” straordinario: «Dai duecentomila della Fiat riparte oggi la lotta operaia. È una lotta che può far saltare la controffensiva padronale e i piani del riformismo». Di là c’era la Cina di Mao. Era fratello dei consigli nascenti e di quel sindacato dei consigli che aveva in Mirafiori la sua cattedrale e di cui noi a Torino credevamo di essere la capitale.

K.S. Karol, sul primo numero del manifesto quotidiano la sua
il primo numero del manifesto, 28 aprile 1971

 

Era stato con quella storia operaia più intensamente e diversamente dagli altri protagonisti della sinistra, da quel Pci che restava incerto e che in alcune sue parti rimpiangeva le vecchie commissioni interne ma anche da chi, più a sinistra, voleva in fabbrica tutti delegati. «Organico», in politica, è un termine che non si potrebbe più usare, ma, se si potesse, si dovrebbe dire che il Manifesto è stato organico al sindacato dei consigli per tutto il lungo ’68-’69 italiano.

A QUEGLI ANNI ’80 arrivavamo, lui e noi, già un po’ provati da avvenimenti dirompenti e da questioni non risolte nella politica dei movimenti.

L’assalto al cielo era stato e si era arrestato. La breccia di cui ha scritto lucidamente Edgar Morin si stava per chiudere.

Cominciava una tormentata transizione. L’annuncio del segno di classe che l’avrebbe connotata è la sconfitta operaia alla Fiat.

Comincia lì il rovesciamento del conflitto di classe di cui ci ha parlato Luciano Gallino e lì si rovescia anche quel primo titolo del Manifesto. Ma non senza combattere.

Ancora una volta il Manifesto è pressoché il solo, con i consigli, a intendere la posta in gioco. Impegna tutto sé stesso nella contesa.

LO SCONTRO APPARE subito difficilissimo. I licenziamenti di massa annunciati dalla Fiat sono senza precedenti e, proprio per la loro inusitata drammaticità, dicono che lo scontro tra operai e padroni investe ora il cuore delle conquiste degli anni ’70, il controllo operaio sulla prestazione lavorativa e sull’organizzazione del lavoro, il potere in fabbrica.

Il Manifesto è il solo, con la Flm e il sindacato piemontese, a cogliere la radicalità della contesa. Glielo consente l’accumulo di una cultura critica, il lungo lavoro di conoscenza e di informazione delle esperienze operaie, la costante attenzione e conoscenza del conflitto sociale e di fabbrica, l’internità alle storie del sindacato.

Dall’interno del conflitto, allora, quella collocazione del giornale ci apparve naturale, invece lo era anche per la straordinaria dotazione politica e intellettuale della sua direzione e della sua redazione portatrici di una originale cultura politica, di una particolare interpretazione dell’essere «quotidiano comunista».

Così, di fronte a uno scontro dall’esito sin dall’inizio a dir poco incerto, «on s’engage et puis … on voit» perché si sceglie da che parte stare.

ROSSANA ROSSANDA proverà persino a introdurre in quel conflitto frontale motivi per un rilancio strategico. Neppure l’enorme effige di Marx che dominava sui cancelli della Fiat poteva propiziarlo. E neppure ciò che ci raccontavano con le loro lotte i cantieri di Danzica.

Eppure quella lotta radicale vissuta dalla stessa parte, con la stessa ambizione, ha segnato tutta la ricerca degli anni ’80 per non rassegnarsi alla resa di fronte al corso di una transizione restauratrice.

I consigli erano stati espropriati del loro protagonismo dalla natura dell’ultima fase della contesa. Il loro posto, senza poterli sostituire, era stato preso del popolo dei cancelli a cui il Manifesto ha continuato a guardare con cura e con l’attenzione che meritava.

Il popolo dei cancelli era, per usare la formula di Claudio Napoleoni, «il residuo». Il residuo è ciò che resta fuori dalla macchina che vuole ingoiare tutto, è insieme una realtà e un’indicazione di futuro, è l’espressione di una irriducibilità.

LA SCONFITTA della lotta dei 35 giorni alla Fiat ha costituito uno spartiacque nella storia sociale del paese e non solo. Lo sguardo lungo del Manifesto sulla vicenda parallela della lotta dei minatori inglesi costretti al drammatico rientro da sconfitti nei pozzi, ci ha aiutato a capire meglio cosa stava accadendo, quale strada stava prendendo la lotta di classe.

Tuttavia, quando contro il taglio di una grande conquista sindacale, la protezione del salario dall’inflazione attraverso la scala mobile, si è rifatta forte la ragione del conflitto sociale, il Manifesto ne ha inteso il nucleo meno contingente, più di fondo, più di società: l’autonomia della rivendicazione salariale è un elemento base della critica dell’economia capitalistica.

Ma il ciclo avviato dal ’68- ’69 si stava chiudendo con la sua sconfitta. Il giornale ha aiutato a riprendere il cammino, ha esplorato le nuove vie che negli anni ’80 si aprivano, come i femminismi e le irradiazioni che essi proponevano.

Il Manifesto ci ha accompagnati nella vittoriosa campagna del referendum sull’aborto e ancora ci ha fatto sperare, purtroppo per un periodo troppo breve, raccontandoci dell’avvento di Mitterrand in Francia. Ma gli anni ’80 erano inesorabilmente stati avviati e compromessi da quelle sconfitte operaie.