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Un flâneur inglese alla prova generale di una catastrofe

Un flâneur inglese  alla prova generale di una catastrofe

Narratori Approdato nel ’33 a Berlino, dove resterà fino alla ascesa del nazismo, Christopher Isherwood ne restituisce ironicamente la pesante cornice

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 12 maggio 2013

«Credo che la misteriosa felicità di Isherwood si affidi tutta a una maliziosa innocenza da prelapsario, da frequentatore – sì, un habitué – del limbo, da melodiosa anima purgante – giacché il peccato è essenziale, ma anche la sua delicatezza, una pochezza adolescenziale. Isherwood non appare adatto alla salvezza, e lo sconcerta la seriosità della dannazione. La sua condizione ideale è quella di un frontaliere, forse un contrabbandiere – ma di cose di poco conto, un apolide ideologicamente perplesso», scrisse Manganelli in una nota del 1988 a La violetta del Prater ( poi ripubblicata nel 2011).
In una foto di Christopher, forse sullo sfondo del parco Tiergarten a Berlino, vicino al quale abitava negli anni trenta, riconosciamo quella versione giovane, addolcita del flâneur di Baudelaire e di Benjamin. Elegante completo grigio di flanella, sguardo azzurro, ciuffo biondo, sorriso invitante. Come quel personaggio del suo Uomo solo, nei vagabondaggi per le insidiose strade di Berlino, Herr Isherwood si dimostrava in possesso di quella tranquilla «assenza di aggressività dell’uomo che fa molta ginnastica di letto».

Basso e snello, «jockeylike», secondo Virginia Woolf che lo incontrò quando la Hogarth Press pubblicò il suoi primi libri (The Memorial, Mr Norris Changes Train e Lions and Shadows ). Dopo molti anni lui ricordava ancora la singolare bellezza di lei e la qualità unica della sua caleidoscopica conversazione. Il Diario berlinese dell’autunno 1930, ora raccolto in Addio a Berlino (traduzione di Laura Noulian, Adelphi, pp. 252 e 5.30), apre con la famosa frase: «Io sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto, completamente passiva, che registra e non pensa. Registro l’uomo che si fa la barba alla finestra dirimpetto e la donna in kimono che si lava i capelli. Un giorno tutto questo andrà sviluppato, stampato con cura, fissato».
In realtà l’obiettivo pensa e sceglie. Un colpo d’occhio individuale si posa solo su certi oggetti della stanza: la stufa-altare, il lavabo-santuario, l’armadio-cattedrale, la sedia vescovile, i candelabri di serpenti intrecciati, il posacenere con testa di coccodrillo, il tagliacarte-stiletto fiorentino… La padrona della pensione Fräulein Schroeder ogni mattina li spolvera, e li sistema con ordine immutabile, «come una inflessibile esposizione delle sue opinioni circa il Capitale e la Società, la Religione e il Sesso». Sono loro gli araldi minacciosi della Berlino che di lì a qualche anno verrà. Non invano l’aspirante scrittore ha fatto la sua prima esperienza nel 1930 con la traduzione di testi brevi di Baudelaire, Intimate Journals, (Il mio cuore messo a nudo), revisionata nel ‘47, e ha imparato a fare buon uso delle due qualità letterarie fondamentali raccomandate da Baudelaire, l’ironia e il soprannaturalismo che danno alla scrittura «intensità, limpidità, vibratilità, profondità e risonanza nello spazio e nel tempo».
La Berlino di Herr Isservut va di pari passo con quella di Rudolf Schlichter – e a ragione in copertina figura il suo Tingeltangel –, meno tragica di quella di Grosz che operò anche lui nell’ambito del Neue Sachlicket. Ma quello che la pittura sembra assalire d’impeto, attraverso uno sguardo tragico, lo scrittore deve lentamente tradurlo in pagine mute ma risonanti, secondo l’arte difficile raccomandata da Baudelaire: la stanza della pensione tedesca si offre come una scena affollata, sporca, vociante, non meno del vicino bistrò, della strada, luoghi che accolgono e fanno vibrare il cuore del flâneur di pura deliziata complicità. Numerosi rapporti si aprono al professore d’inglese che tra i suoi alunni annovera ricchi e disperati ebrei, ma frequenta anche con pari disinvoltura i malefici ritrovi dei giovani hitleriani, i bellissimo biondi in calzoni corti, le lesbiche aggressive che ballano tra loro, le stanche prostitute che passeggiano nei vicoli.(Chi non ricorda il famoso Cabaret? ). «L’amore è il gusto della prostituzione. Non c’è anzi piacere nobile che non possa essere ricollegato alla Prostituzione» – scriveva Baudelaire.

Chris va ad abitare con l’elegante, imprevedibile, cantante, poetessa, amica di vecchi ebrei e grassi americani, Sally Bowles da cui discende l’eroina di Colazione da Tiffany e una folla di anonime. Ma il suo stile non è facilmente imitabile. «Aveva una voce sorprendentemente profonda e roca. Cantava male, senza espressione, le mani penzoloni lungo i fianchi… e un sorriso che pareva una minaccia – prendere o lasciare. Ricevette applausi a non finire.» Il personaggio a tutto tondo, è proprio il caso di dirlo, certo il più amato, è il bello e grottesco Otto Nowak, bisex, nullafacente ma molto pretenzioso, poderoso nella sua popolaresca mancanza di ogni misura, grande nella ignominia come nell’abbigliamento. La vita nella casa dei Nowak, dove Chris si è messo a pensione, è un capitolo dickensiano.

La madre tisica di Otto, sempre su tutte le furie, entra nella scrittura con più rabbiosa energia di Fräulein Schroeder. Il finale è allucinante – e si sospetta che ci fu veramente la visita al sanatorio dove lei era ricoverata. Chris e Otto, un Otto splendidamente abbigliato, andarono a trovarla e la trovarono in una stanza insieme a altre tre pazienti. C’era una giovane pelle e ossa che volle baciare Chris sulla bocca. Ballarono. Il giovane flaneur fu alla sua altezza. «Tutto ciò che vissi in quella giornata fu curiosamente privo di impatto: i miei sentimenti erano smorzati, segregati, e operavano come fossi in un vivido sogno». Finalmente arrivò l’autobus che li riportava in città, e Frau Nowak apparve come ciò che era diventata: una maschera mortuaria, «le lacrime le scorrevano su un sorriso orrendo, da rana».

Il capitolo sui Landauer, ricchissimi ebrei, ancora incerti sull’approssimarsi della crisi, è più di maniera e inscena un Mr Isherwood più risentito e ancor più inglese. Da quell’incorreggibile flâneur che era, una mattina volle entrare nei famosi grandi magazzini Landauer, ormai presidiati dai giovani nazisti, per comprare una piccola grattugia per la noce moscata. Gli andò bene, perché i ragazzi di guardia lo avevano già visto nel poco raccomandabile Alexander Casino, e sorrisero complici.
Il diario dell’inverno 1932-1933 avverte della fine. «Berlino è uno scheletro dolorante per il freddo: è il mio scheletro indolenzito. Sento nelle ossa il dolore acuto che il ghiaccio infligge alle travi della sopraelevata, al ferro delle ringhiere dei balconi, ai ponti, alle rotaie dei tram, ai lampioni, alle latrine». Torna a Londra, non senza lasciare un ultimo profetico messaggio, questa volta estetico, che riguarda l’abbigliamento degli studenti non nazisti che si raccolgono in un piccolo caffè, che passa per «comunista», con i muri ricoperti di disegni espressionisti, ritagli di giornale, carte da gioco, sottobicchieri… La «trasandatezza politica» dei maglioni dei maschi, delle ampie gonne malferme delle ragazze e le loro sciarpe zingaresche le vedremo ancora negli anni a venire. Isherwood è arrivato al miracolo – auspicato da Baudelaire – «di una prosa poetica, musicale, senza ritmo e senza rima, a un tempo morbida e urtata abbastanza da adattarsi ai moti lirici dell’animo, al vagare ondoso della fantasia, ai soprassalti della coscienza». Ma gli era servita quella città fatale, sentina di vizi e di miserie, Sodoma e Gomorra internazionale, indirizzata a un crudele destino. Oggi c’è un tour, intitolato a Isherwood, che per dieci euro vi può mostrare quel che resta della sua Berlino – non meno tragica di Pompei.

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