«Roma era una grande città, dove nessuno sapeva parlare tedesco o polacco, dove tutti gridavano e facevano terribili imbrogli; la Cuiavia era certo più bella». Questa la prima immagine dell’Italia che il vecchio domestico consegnava poco dopo il 1850 a un bimbo precoce, nato in una remota regione orientale del regno di Prussia e destinato a diventare il più grande studioso di antichità classica dell’Europa moderna: Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff (Markowitz 1848 – Berlino 1931). Nonostante questo esordio non proprio entusiasmante, il grande filologo tedesco ebbe per Roma e per l’Italia, visitata più volte tra il 1872 e il 1927, una grande e durevole passione. La si ritrova con forza nella Memorie che, ottantenne, Wilamowitz pubblicò nel 1928 (in traduzione italiana, con il titolo Filologia e memoria, Guida 1986): il libro, una sorta di ripensamento della lunga esperienza dello studioso, contiene vari ricordi dei viaggi compiuti nella da poco riunificata penisola, e osservazioni relative a periodi più recenti. Messe insieme, le osservazioni costituiscono un interessante saggio sulla percezione dell’Italia da parte di un intellettuale autorevole, non solo entro la «casta» degli antichisti.
Oltre a quanto gli era stato detto sull’Italia dal patriottico domestico di Markowitz, e a quanto aveva appreso dalla vivace zia Emma von Schwanenfeld, Wilamowitz poco scoprì durante il pur fecondo periodo di studio nel celebre ginnasio di Schulpforte, in Sassonia (1862-’67: pochi anni prima l’aveva frequentato anche Nietzsche): latino e matematica erano le materie principali, il resto era secondario. Di conseguenza, la sua conoscenza dell’Italia era libresca. Aveva iniziato a praticare la lingua a scuola, grazie al germanista Karl August Koberstein (1797-1870), che insegnava l’italiano facendo leggere direttamente agli studenti la Gerusalemme Liberata. Trasferitosi per studiare a Bonn, seguì le lezioni sul Vasari dello storico dell’arte Anton Springer (1825-’91), e «l’antico struggimento» per l’Italia ne fu accresciuto. Ne seguì fu una fervida ammirazione per l’arte e la cultura italiane del Medioevo e del Rinascimento: con questo bagaglio dunque, e con il Cicerone di Burckhardt, si avvicinò alla «terra dove fioriscono i limoni»: ne amò sempre infatti «il cielo limpido, l’aria mite, la lingua melodiosa» e certo la Italienische Reise di Goethe fu pure sua guida.

Divenuto socio corrispondente dell’Istituto Archeologico di Roma, Wilamowitz partì per il suo primo viaggio in Italia nell’agosto del 1872: all’indomani quindi della fondazione del (secondo) Reich tedesco e dell’unione di Roma al Regno d’Italia, in un momento significativo, in bilico tra sopravvivenze dell’ordine precedente e nuove realtà. Ma anche, sul piano personale, all’indomani della partecipazione come volontario alla guerra franco-prussiana del 1870-’71 e della feroce polemica contro Le origini della tragedia di Nietzsche, che il giovane filologo aveva condotto con grande determinazione. Nei soggiorni a Milano, Verona, Padova, Venezia, il desiderio della scoperta prevalse, nel trentenne Wilamowitz, sui doveri della ricerca. Andò certo in pellegrinaggio per le biblioteche, incontrando studiosi e studiando manoscritti (all’Ambrosiana, alla Marciana, alla Laurenziana), ma nelle Memorie sono piuttosto le scoperte d’arte a dominare, da Luini a Crivelli, da Mantegna a Tiziano a Veronese. E soprattutto Giotto, che insieme al Paradiso dantesco gli consentì di «comprendere la religione medievale nella sua impareggiabile compiutezza». Venezia, «priva di alberi» e marcata da «segni di decadenza», non suscitò grandi entusiasmi, a parte l’incontro con la pittura di Sebastiano del Piombo: secondo Wilamowitz «le mancano scrittori importanti», e quindi manca la chiave per comprendere il senso dell’esperienza storica della Serenissima. Per fortuna ci sono i bagni del Lido, che insieme a quelli nel lago di Como, e più tardi a Capri, richiamano la tempra natatoria acquisita in patria, fin da fanciullo.

L’entusiasmo più grande è riservato alla Toscana (Pisa, Siena), e a Firenze: anzitutto la Firenze di Dante e Boccaccio, di Poliziano e Lorenzo, ma anche la quieta città moderna, ormai non più capitale, verso la quale appaiono i segni di un innamoramento totale. Come spiegare altrimenti l’idea che la signora che gli offrì alloggio «sembrava presa da un affresco del Ghirlandaio»?
Gli incontri ricordati sono soprattutto quelli con i bibliotecari e con altri filologi e studiosi tedeschi: in Italia nacque la salda amicizia con l’epigrafista Georg Kaibel e con il filologo Friedrich Leo. Non stupisce invece che rari siano gli italiani (a soggiorni più tardi risale il legame con Girolamo Vitelli): ma al principio degli anni settanta dell’Ottocento la filologia nostrana toccava un punto particolarmente basso. Lo riconobbe in una celebre lettera del 1873 il grande Mommsen (futuro suocero del Wilamowitz), scrivendo a proposito dell’Italia: «se sotto quasi tutti gli altri rapporti vi vedo un bel progresso, gli studi classici fanno un’eccezione assai triste». E infatti gli efficienti filologi ansiosi di collazionare codici si scontravano con bibliotecari pigri e svogliati, e biblioteche mal accessibili o scomode. Quasi ovunque, l’Italia visitata da Wilamowitz è descritta, prevedibilmente, come pittoresca e disorganizzata. Ma anche povera: «nella decadente Cortona (…) fummo infastiditi da una marmaglia importuna» di questuanti. Un collega li mise in fuga «grazie alla sua conoscenza delle più efficaci parolacce».
E del resto, su scala più grande, il giovane stato appare segnato da un grave disordine finanziario («finanze quasi disperate»). Sicché un elogio spetta al ministro Minghetti e soprattutto all’ «orgoglioso patriota» Quintino Sella per aver preso al riguardo provvedimenti salutari e impopolari: e sono proprio gli atteggiamenti che ci si aspetta da uno spirito prussiano… Convinto però che negli italiani si serbi ancora qualcosa della comicità di Plauto, Wilamowitz trova utile riportare, in italiano e chiedendo scusa al lettore, una «pasquinata» latrinaria letta a Roma, che ben rivela il malcontento diffuso: «Caro Minghetti ti ringrazio / che qui si piscia senza dazio / e si può fare una cagata / senza pagare carta bollata». Ma i viaggi disagevoli, le disavventure e persino le truffe sono ricordati con lo spirito leggero di chi rievoca una gioventù avventurosa e serena: un portafogli rubato a Perugia, una banconota falsa a Bologna.

E poiché le Memorie sono frutto di una rielaborazione della tarda maturità, Wilamowitz si concede qualche commento retrospettivo: così, circa l’episodio della banconota falsa rifilatagli alla stazione, annota nel 1928: «Com’è felice un amico dell’Italia che cose del genere adesso non siano più possibili e che l’Italia fa da sé». Oltre al sollievo per il giudizio, va notato che il motto citato dallo studioso è quello del 1848, riferito però all’Italia fascista, e certo in opposizione ai contemporanei disordini della detestata repubblica di Weimar.

Meta principale del viaggio era l’Istituto di Corrispondenza archeologica di Roma, allora situato sul Campidoglio. La compagnia dei «ragazzi», come erano chiamati gli «interni» dell’Istituto, usava avventurarsi per la città, talora schiamazzando la notte, quasi a rinverdire i tempi delle Burschenschaften, e battendo alcune vecchie osterie come «Il Gabbione», frequentato decenni prima da Bartolomeo Pinelli. Una Roma da pochi mesi divenuta italiana, e capitale, ma ancora piena di segni del passato papalino, e non ancora intaccata dalle trasformazioni post-unitarie. La vita della città appare a Wilamowitz molto sicura, nonostante i miti sul brigantaggio delle campagne (ossia già fuori porta), e la presenza di molta plebe povera; piuttosto, essa è caratterizzata da un ritmo di vita molto lento: «ci vuol pazienza era un motto a cui l’irrequieto tedesco del nord dovette abituarsi per forza. Quando aspettava impaziente un vetturino o un oste, gli toccava sentire un mo’ viene pieno di disapprovazione». E qui s’incontrano le costanti antropologiche di un paese che offre ai suoi ospiti, in cambio di caratteristiche bellezze, altrettanto caratteristici maltrattamenti.

Non soltanto perché classicista, e dunque professionalmente volto al passato, Wilamowitz appare meno interessato all’Italia contemporanea; conosce però e apprezza alcune personalità letterarie: a parte Carducci, l’entusiasmo per Giacosa (Una partita a scacchi) e Benelli (La cena delle beffe) si spiega ancora con il mito dell’Italia del passato. Lo sguardo è spesso rivolto all’indietro: evidente la nostalgia per la Roma d’inizio Ottocento, conosciuta dalle memorie di Humboldt e Goethe. Non amata invece è la «nuova» Roma, che nei successivi viaggi gli apparirà una «metropoli americana» (!), né amati i segni della nuova Italia: del «bianco spauracchio del monumento dell’Ara Coeli», ossia del Vittoriano, dice che «deturpa l’immagine della città più del Duomo e del Reichstag di Berlino».

Ma Wilamowitz resta comunque un monarchico: così ricorda un ricevimento al Quirinale, nel 1903, in occasione del quale conversa con il re Vittorio in italiano, mentre la regina Elena gli parla «in tedesco con puro accento viennese». In Roma italiana restava pur sempre il papa: ma la «questione romana» affiora quasi esclusivamente per i riflessi che aveva sulle ricerche. Negli anni settanta l’accesso alla Biblioteca Vaticana era reso difficile ai tedeschi. Monsignor Pio Martinucci «faceva di tutto per tormentare i visitatori: orario di apertura dalle 8 alle 11, spesso la lettura era possibile soltanto in un posto, cioè all’unico tavolino vicino alla finestra». Anche se i pochi altri ecclesiastici citati ottengono migliori giudizi, la diffidenza verso il mondo cattolico emerge abbastanza chiaramente: il nuovo santuario mariano di Pompei è definito sprezzantemente una «superstizione redditizia».
Dopo un viaggio in Grecia (marzo-maggio 1873), è la volta del Sud: Napoli anzitutto, con l’Officina dei Papiri Ercolanesi, ma anche varie località dell’interno. Gli inconvenienti della disorganizzazione italica e i disagi igienici si fanno più sensibili: a Venosa l’abbandono in cui giacevano le iscrizioni antiche porta Mommsen a gelare il sindaco, che ha approntato grandi festeggiamenti: «Voi volete essere la città di Orazio, siete la città dei porchi».

A Pompei il viaggiatore è tormentato dalle pulci, contro le quali l’albergatore consiglia un rimedio infallibile: dormire con un solo calzino, farvi radunare gli insetti, ed eliminarli comodamente. Né mancano, con spirito tedesco molto pratico, improbabili profilassi contro i rischi della dissenteria. Problemi si ripresentano anche a Venezia, dove Wilamowitz alloggia «stupidamente in un albergo austriaco», gli tocca un «bugigattolo disgustoso» dove contrae una forte febbre, curata precariamente col chinino. Ma c’è anche la presa di coscienza della dura realtà di miseria: «si imparava che la Campania non è un paradiso per oziosi, ma terra di lavoro». E non era un problema solo meridionale: nel 1898, a Pompei come a Milano, il filologo deve fare i conti con i gravi moti che scuotono l’Italia in quell’anno. E se a Napoli registra con interesse le grida della plebe nostalgica dei Borbone («a basso il parlamento, vogliamo il re assoluto»), in viaggio per Genova un un italiano di Alessandria d’Egitto, incontrato sul piroscafo, gli dice: «l’Italia si disfà da sé». A Milano, poi, trova la città sconvolta (sono le giornate di Bava Beccaris), ma trova rifugio alla Biblioteca Ambrosiana, presso l’amichevole prefetto Antonio Maria Ceriani.

E pur con tutte le sue criticità, l’Italia appare preferita dal classicista Wilamowitz rispetto alla Grecia. Qui, a suo avviso, il cristianesimo ortodosso ha «praticamente distrutto il legame con l’ellenismo antico» e per di più manca «la spontanea, viva allegria del popolo italiano». In questo giudizio appare anche un retaggio di classicismo: «la vita della Grecia odierna per noialtri rappresenta un ostacolo sul cammino verso l’Ellade che conosciamo», a causa della «lunga serie di secoli vuoti tra noi e l’antichità». Non c’è grande spazio però, in Italia, per le rovine antiche: nemmeno nei successivi viaggi (1898, 1903, 1925), ricordati più rapidamente nelle Memorie. Certo, il Foro romano e gli scavi di Giacomo Boni hanno una menzione, ma l’impressione è che l’antichità classica fosse soprattutto, per Wilamowitz, la grande Grecia del passato. Non di meno, sul senso dell’eredità antica in Italia egli scrisse pagine importanti: proprio le scoperte della Roma antichissima lo convinsero della necessità di studiare «la storia italica che culmina nella dominazione dei romani prima sull’Italia e poi sul mondo intero» (così nel discorso detto a Firenze nel 1925, pubblicato poi in italiano e lodato da Benedetto Croce, per l’implicito rigetto della romanolatria nazionalistica).

Ma questa fase estrema del rapporto tra Wilamowitz e l’Italia non è raccontata nelle Memorie: esse si chiudono significativamente con il 1914. Con la guerra cioè, che segnò la rottura della «solidarietà scientifica» tra accademici, sacrificata alle logiche del nazionalismo; la guerra che costò la vita al figlio Tycho (1885-1914); la guerra che cancellò il mondo politico e ideologico con il quale Wilamowitz si era totalmente identificato, e per il quale si era molto speso, anche durante il conflitto; la guerra che dopo la sconfitta tedesca portò i vincitori ad assegnare la Heimat, l’amata Markowitz, alla Polonia. Pochi mesi prima di morire, nel gennaio del 1931, Wilamowitz scriveva a Vitelli: «Possa il nuovo anno essere positivo per il Suo paese in crescita: per la Germania non ho alcuna speranza». Aveva ragione, inconsapevolmente: mancavano due anni alla Machtergreifung.