C’è un filo rosso, un filo tessuto a macchina, che dalle rovine di Dacca, in Bangladesh, si dipana in tutta l’Asia: dalla Turchia a Ovest all’Indonesia a Est. Un filo rosso che passa dalla Cina (primo produttore mondiale del tessile con un fatturato di 115 miliardi di dollari), dai quartieri di molte città indiane o dalle periferie dei centri cambogiani.

Proprio la Cambogia, non meno che in Bangladesh, la vicenda del Rana Plaza – ma anche i tanti incidenti nelle fabbrichette spesso prive delle elementari norme di sicurezza – ha dato la stura a una protesta che rivendica da mesi un salario decente. Diversi manifestanti sono stati uccisi da una dura repressione dei moti sindacali che, dal 24 dicembre scorso, chiedono un aumento del salario minimo da 80 dollari a 160.

In Bangladesh invece, forse il Paese più conveniente per i marchi che hanno deciso di investire qui preferendolo persino alla Cina e all’India (13 mld di fatturato), la richiesta di adeguamento salariale si è fermata a ottanta dollari. Le lotte innescate l’anno scorso hanno fatto siglare un parziale aumento al governo, ma da qui a farlo rispettare ce ne corre.

Gli investitori stranieri sono continuamente in cerca di nuove strade dove pagare meno, ottenere qualità, non dover fare i conti col sindacato, poter trattare con governi compiacenti. La Cambogia è una di queste nuove frontiere ma anche il Vietnam: Paesi meno cari dell’Indonesia (15,5 mld di fatturato) che vanta però una manodopera specializzata in un Paese dove ormai la dittatura trentennale di Suharto è un ricordo, dove il tessile ha una lunga storia e si fa anche molta formazione e quindi la qualità del prodotto – oltre che il politically correct – è garantita, pur se costa di più per unità di prodotto. Se Hanoi e Phnom Penh sono le capitali più gettonate, una parte importante della delocalizzazione del tessile resta ancora in India e Pakistan per la capacità, tra l’altro, di garantire sistemi industriali di confezione e di spedizione. Poco importa se anche qui la catena di incidenti è lunga e le condizioni di lavoro spesso bestiali; situazioni dove si sfrutta una manodopera – per lo più femminile e spesso minorile – reclutata nelle campagne dove c’è fame di lavoro e riluce il fascino della modernità urbana.

Comunque, per capire come va il mercato bisogna guardare i dati dell’export tessile: al primo posto c’è la Cina (159,6 mln di dollari), il Bangladesh è al terzo (oltre 19 mln), al sesto, settimo e ottavo rispettivamente Turchia, Vietnam e India (circa 14 mln), al 13mo l’Indonesia (7,5). Chi compra? Ai primi posti gli Stati uniti, seguiti da Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia, Hong Kong, Italia, e Spagna.