«Paura e desiderio», questo a detta di Armie Hammer il cuore della sceneggiatura ricevuta da Luca Guadagnino, che lo aveva scelto per il ruolo di Oliver nel suo Chiamami col tuo nome – che ieri l’attore, il regista e il protagonista Timothee Chalamet hanno presentato a Roma. Uno script ricevuto più di sei anni dopo il primo incontro fra Guadagnino e Hammer, dato che il progetto del film – racconta il regista – risale a ben nove anni fa, quando i produttori che avevano comprato i diritti del romanzo di André Aciman da cui è tratto Chiamami col tuo nome hanno chiesto a Guadagnino una «consulenza».

Trascorso un anno dal suo debutto al Sundance, e poco dopo alla Berlinale, il film ha ricevuto quattro candidature agli Oscar, tra cui quella al miglior film e al miglior attore protagonista – Timothee Chalamet, che con la stampa si è rifiutato di tornare a parlare della sua decisione di dare in beneficenza il compenso del prossimo film di Woody Allen del quale è il protagonista.

Ma che cosa in questo nuovo lavoro di Guadagnino avrà conquistato i «giurati» dell’Academy? «A casa mi arrivano molte lettere di donne e uomini, giovani e anziani – dice il regista per spiegarne il successo – in cui mi dicono che vedere il film è stata un’esperienza trasformativa, come se consentisse di trovare una risoluzione a dei nodi emotivi. Penso che abbia a che fare col fatto che Call Me By Your Name è un film sull’empatia, sulla compassione, la trasmissione del sapere, la capacità di vedersi nello sguardo dell’altro. E penso che queste siano forme emotive necessarie, soprattutto in una contemporaneità atomizzata, separata e arrabbiata come la nostra».

Il complimento che più gli ha fatto piacere, racconta poi, è quello di Christopher Nolan, incontrato ai Golden Globes: «Mi ha detto una cosa che mi ha riempito di orgoglio – mi ritengo un artigiano, per cui questo è importante: e cioè che il modo in cui abbiamo messo in scena gli anni Ottanta è impressionante, e detto da lui… ».

Una storia, quella di Oliver, Elio e i suoi genitori che – dice ancora il regista – potrebbe anche non finire qua: «Ho provato una grande passione per i personaggi incarnati da questi attori. E a Berlino, rivedendo il film con il pubblico, ho avuto la sensazione che le loro sono delle vite che forse, crescendo, possono dirci qualcosa di noi stessi. Quindi se ci sarà un’occasione per riunirci tutti insieme forse riusciremo a realizzare delle cronache di questi personaggi, magari guardando con umiltà alla lezione di Truffaut e del suo ciclo di film su Antoine Doinel».