L’uomo coccodrillo, La moglie del re serpente, Goodbye Duong Dara. Il cinema in Cambogia è nato nei primi anni ‘60: mentre nel resto del mondo sbocciavano le Nouvelle Vague il pubblico di Phnom Penh scopriva per la prima volta i film realizzati da registi cambogiani, quasi tutti variazioni su un’unico tema, un amore melodrammatico in una cornice fantastica. È la Golden Age del cinema Khmer ripercorsa da Golden Slumbers, documentario del 2011 di Davy Chou: regista parigino classe 1983 figlio di cambogiani emigrati in Francia durante il regime di Pol Pot, e nipote di uno dei produttori di quegli anni d’oro, Van Chann.
«Circa 400 film sono stati realizzati in Cambogia tra il 1960 e il 1975. Nella sola Phom Penh c’erano ben 30 cinema», recita la didascalia che apre il suo film.
La ricerca del documentario di Chou si confronta però con un oggetto perduto per sempre: quello stesso cinema cambogiano che ne è il protagonista, fatto sparire dagli Khmer rossi quando conquistano la capitale nel 1975 e distruggono non solo le sale cinematografiche, luoghi di decadenza borghese, ma anche i film – oggi non resta che una manciata di bobine originali – e soprattutto le persone: attori, produttori, registi, musicisti sono le vittime della persecuzione sistematica di un regime che ha ucciso quasi due dei sette milioni di persone che vivevano in Cambogia.
Davy Chou si mette quindi sulle tracce dei sopravvissuti, delle loro storie e dei loro ricordi di un’età dell’oro scomparsa per sempre. Nelle strade della capitale rintraccia i cinema che non sono andati distrutti, oggi trasformati in karaoke, ristoranti o abitazioni. Al loro interno si sofferma a osservare i più giovani, che hanno perso ogni connessione con il passato. «Non ci avevi mai parlato della tua vita precedente» dicono i figli di uno dei registi sopravvissuti, Yvon Hem, quando sentono per la prima volta i racconti del padre sul suo lavoro prima degli Khmer Rossi.
Questa amnesia è anche in un certo senso la protagonista del primo film di finzione di Chou, Diamond Island, presentato alla Semaine de la critique due anni fa e incentrato su dei giovani operai cambogiani che vivono e lavorano in un quartiere lussuoso e «globalizzato» in costruzione nel cuore di Phnom Penh.
Tra le luci al neon di Diamond Island, così come nel karaoke dove un tempo sorgeva il cinema Bokor, ignorano tutto dell’esplosione creativa che investì il paese nel quindicennio d’oro del cinema cambogiano. In Golden Slumbers, più che ricostruire la storia e la genealogia di quel cinema, Davy Chou riesce però a individuare le tracce che ha lasciato di sé, nonostante tutto, nel presente: le trame dei film ricordate con precisione da due vecchi amici cinefili, o raccontate dagli stessi registi sopravvissuti; una delle attrici più famose dell’epoca, Dy Saveth, che torna sul set di uno dei suoi film, vicino a un villaggio di campagna, e scopre che la collina dove era stata lapidata per finta viene ancora chiamata col suo nome. E soprattutto le canzoni dei film, che sono sopravvissute alla loro distruzione: «Anche dopo che la città è stata conquistata da Pol Pot – racconta la zia del regista – di nascosto continuavamo a cantare».
Come è nato «Golden Slumbers»?
Sono cresciuto in Francia e per molto tempo non ho saputo nulla del cinema cambogiano, ma in famiglia avevo sentito dire che mio nonno – che non ho mai conosciuto – faceva il produttore cinematografico. Quando poi ho iniziato a occuparmi di cinema mi sono rivolto a mia zia, che vive a Parigi ma a differenza dei miei genitori ha passato più tempo in Cambogia perché è stata fatta prigioniera dagli Khmer rossi. Raccontandomi di mio nonno, mi ha anche spalancato una porta su un mondo che non conoscevo, fatto di giovani cambogiani che negli anni ‘60 prendevano in mano per la prima volta delle telecamere 16 mm e reinventavano con innocenza il cinema popolare.
Quando poi nel 2008 sono andato in Cambogia per la prima volta ho iniziato a cercare quei film, ed è stato allora che ho capito che erano andati perduti. Il progetto del documentario è cambiato radicalmente: da raccontare la storia di una cinematografia sconosciuta al tentativo di filmare le tracce di un cinema scomparso.
La frattura tra passato e presente che avevamo visto in «Diamond Island» è ancora più presente in «Golden Slumbers».
«Diamond Island» nasce proprio dalle sequenze di «Golden Slumbers» in cui mostro i giovani, che all’epoca mi affascinavano molto e forse rappresentavano anche me: nonostante fossi il nipote di un produttore non sapevo niente del cinema cambogiano e di ciò che era successo.
Questa amnesia è qualcosa di molto personale, così come il tentativo di ritrovare una connessione con un passato che è stato interrotto, spezzato dalla Storia. Ma nel film si vede anche un collettivo di giovani registi, Kon Khmer Koun Khmer (fondato dallo stesso Chou, ndr), che rimette in scena una sequenza di uno dei film più famosi di allora. È il tentativo di costruire un ponte tra generazioni.
A differenza dei film le musiche e le canzoni per il cinema sono riuscite a sopravvivere.
I film per lo più esistevano in una sola copia, perché era troppo costoso farne altre. In Cambogia infatti non c’erano laboratori cinematografici, e se si volevano dei duplicati le pellicole dovevano venire spedite all’estero. La musica invece veniva già venduta su vinile, e tutti la potevano comprare. Anche tanta musica dell’epoca è andata perduta, ma siamo stati comunque in grado di ritrovare molti vinili in Cambogia, in Europa e negli Stati Uniti, dove in molti sono fuggiti durante la dittatura e dove negli anni ‘80 e ‘90 il contenuto dei vinili è stato trasferito su musicassette. E quella musica è ancora molto popolare: anche se i giovani sono naturalmente più propensi ad ascoltare i musicisti contemporanei quelle sono le canzoni che i loro genitori ascoltavano in casa. Le storie dei film sono sopravvissute alla distruzione del materiale su cui erano impresse proprio grazie alla musica e ai racconti della gente: ho incontrato ragazzi in grado di ricordare trame di film che non avevano mai visto perché gli erano state raccontate dai nonni.
Nei racconti dei sopravvissuti il cinema cambogiano – in fatto di tecniche, storie ecc. – era un’arte improvvisata. Come è nata?
Prima che i cambogiani cominciassero a fare film c’erano già dei cinema dove venivano proiettati principalmente i film di Hong Kong o quelli indiani, ma anche qualche titolo americano e francese. Inoltre c’erano coloro che avevano ricevuto un’educazione «cinematografica», ad esempio per i cinegiornali.
I filmmaker dell’epoca venivano dalla borghesia: molti avevano delle 16 mm per girare filmini familiari, e si sono lanciati in un mondo tutto da esplorare.
Uno dei registi, Ly Bun Yim, nel film mi racconta come realizzava i suoi effetti speciali – far volare un tappeto, rappresentare un gigante eccetera – e avevo la sensazione di ritrovarmi davanti a una reincarnazione di George Méliès, venuta al mondo sessant’anni dopo.