Eugenio Iafrate cercava notizie di un suo zio scomparso in Germania, e viene a conoscenza del primo treno di deportati partito dalla stazione Tiburtina di Roma interamente organizzato e gestito da agenti di pubblica sicurezza italiani. Era il 4 gennaio del ’44; il «treno prototipo», l’avrebbero poi chiamato, il modello cui riferirsi per tutti i successivi viaggi della morte dall’Italia liberata a metà verso Dachau, Auschwitz, Mauthausen, l’orrore del castello di Hartheim.

Elvira Pajetta voleva raccontare suo padre Giuliano, fratello di Giancarlo, come lui stesso e il suo mondo non le sembrava fossero riusciti a fare, e restituisce alla storia la complessità e l’umanità di una persona-monumento dell’antifascismo, la cui vita ha sostanzialmente coinciso con quella del Pci. Verificando con precisione documentale come la Resistenza, al di là dell’iconografia eroica dei partigiani in armi, l’abbiano fatta una miriade di piccoli gesti sostenuti da una coscienza politica capace di guardare oltre la sopravvivenza: distribuire il pane, certo, ma allo stesso modo informare sull’andamento della guerra. Possedere una radio era un crimine, in un mondo in cui annientare coscienza e capacità critica era l’obiettivo.

Le fabbriche in prima linea

Giuseppe Valota si è messo sulle tracce del padre Guido mai conosciuto, deportato politico da Sesto San Giovanni a Mauthausen, e finisce per ricomporre in modo dettagliato il quadro dell’area industriale di quegli anni in tutto il milanese, trainata da Breda, Pirelli, Magneti Marelli, Falck, le grandi fabbriche che (insieme a Fiat e Olivetti almeno) fecero la storia economica d’impresa del Dopoguerra. Ed è un’angolazione inedita, la sua, perché lo sguardo è quello di chi è rimasto a casa ad aspettare, le mogli coi bambini da crescere, le sorelle, le madri senza più figli, le figlie senza più padri. Lo sguardo delle donne.

Iafrate con «Elementi indesiderabili», Pajetta con «Compagni», Valota con «Dalla fabbrica ai lager»: i loro libri, tutti usciti quest’anno, raccontano storie personali che si intrecciano con la memoria collettiva italiana, sono biografie e storiografie sconosciute agli archivi ufficiali, frutto di indagini certosine costruite in un arco temporale ventennale. Li presentano oggi a Milano alla Casa della Memoria (dalle 10,30) per la decima edizione della giornata della «Memoria familiare-figli e nipoti raccontano» organizzata dall’Aned, l’Associazione degli ex deportati. Non sono gli unici libri di cui si parlerà, ne verranno presentati una decina, di cui pubblichiamo a parte le indicazioni.

Passato e presente

«La giornata della Memoria familiare è stata la nostra prima iniziativa rivolta non ai deportati, ma ai loro parenti – spiega Dario Venegoni, neopresidente dell’Aned, eletto dopo la morte di Gianfranco Maris – L’obiettivo non è solo la rievocazione: è un appuntamento carico di energie, in cui si incontrano spesso per la prima volta persone che quel percorso di indagine della memoria familiare l’hanno gia’ fatto o lo faranno. Nei momenti di pausa non fanno che parlare tra loro, si scambiano informazioni, metodologie, ricostruiscono la dislocazione della documentazione disponibile, frammentata tra Berlino, Londra, Washington, Mosca.

L’epoca del testimone diretto è finita o va finendo, ma da qui a quella dello storico, la cui indagine si esaurisce tra gli archivi, esiste una terra di mezzo, quella appunto degli archivi familiari: sono loro, i figli, i nipoti, i depositari di un pezzo di memoria non altrimenti rintracciabile. Dei miei genitori (Venegoni stesso e’ figlio di deportati, ndr) nessuno storico saprà mai quello che so io».

C’è anche di più. C’è quel fil rouge che sempre attraversa la storia, che lega la guerra di allora a quelle, nuove, di oggi, i viaggi nei vagoni piombati a quelli dei profughi stipati in fretta nei barconi. È tutto diverso ed è tutto così maledettamente simile, ed è sempre lì, la Necessità, a muovere le fila. Come dice Venegoni: «Torna in auge la guerra quale risoluzione dei problemi internazionali. L’ideologia che prevale sulla realtà dell’uomo. Quando nella piazza di Mosul hanno bruciato dei libri considerati blasfemi, ho ripensato subito ad una frase di Heinrich Heine, ripresa da Primo Levi, secondo cui chi brucia libri finisce per dare fuoco alle persone.

Una settimana dopo, il video dell’Isis col pilota giordano chiuso in una gabbia ed arso vivo. Ad oggi non abbiamo soluzioni facili in mano. Mi ricordo quella vignetta di Altan che dice “mi vengono in mente idee che non condivido”: la guerra, appunto, e tutte quelle risposte alla crisi di oggi che tendono a mettere in discussione i nostri valori più importanti, la libertà, la privacy, la solidarietà».

Un modo per fare politica

Gli autori che parlano oggi alla Casa della Memoria lo sanno in partenza, o ci arrivano a fine percorso: per tutti loro «conoscere la storia per capire il presente» non è pura astrazione. «Ho iniziato a cercare – racconta Iafrate – per fare i conti con qualcosa di importante che mi appartiene, e ho scoperto, io che di politica nella vita ne ho fatta tanta, un nuovo modo per continuare a farla. Ho capito studiando i viaggi dei deportati che tutto, allora come oggi, è regolato da rapporti di forza economica: dai biglietti per le famiglie consegnati agli agenti in cambio di un po’ di cibo o di un orologio, dalla mutua tedesca che pagava i nazisti per questi lavoratori-schiavi, dal fatto che un treno non potesse partire con meno di 300 persone. Era antieconomico, capisce?».

Il «treno prototipo» della linea Roma-Mauthausen, partito all’indomani di giorni di guerriglia urbana dopo l’8 settembre, e mentre dilagava la guerra civile, ne trasportava 329, una rappresentanza di indesiderabili molto estesa: età variabile tra i 14 e i 66 anni, comunisti, socialisti, anarchici, ex militari, ebrei. Torneranno in 62, di questi alcuni moriranno subito dopo. L’ultimo reduce ad andarsene è stato, l’anno scorso, quel Mario Limentani protagonista di un altro libro presentato oggi.

Le cure di Anna Kuliscioff

Perché ovviamente le memorie raccontate sono spesso intrecciate tra loro, e mentre il faro si accende su una storia faticosa di persone comuni ne vediamo passare accanto un’altra, altrettanto sofferta, di chi ha fatto la storia politica e istituzionale del Dopoguerra. Succede nel libro di Valota dove, scorrendo le 89 testimonianze riportate, si arriva alla moglie di un deportato che aveva curato a Milano Anna Kuliscioff immergendola in bagni di latte per lenirne i dolori causati dalle sofferenze del carcere.

Spuntano Pertini, Parri e Rosselli, processati in contumacia, mentre nell’immediato Dopoguerra a Sesto San Giovanni è Armando Cossutta che consulta per le donne in cerca di notizie gli elenchi dei deportati. Tra i più accesi organizzatori del Soccorso rosso – che in gran parte è un pezzo di pane e un po’ di farina dietro la porta, o una moneta che passa di mano – c’è la contessa Bonacossa, grande amica del generale Raffaele Cadorna, nipote dell’omonimo che aveva comandato le truppe italiane nella presa di Roma del 1870. Le interviste ci portano nell’intimo della classe operaia sestese, falcidiata dalle deportazioni seguite ai grandi scioperi del ’44, 570 deportati politici, 223 morti direttamente nei campi.

L’unico industriale che non collabora con i nazifascisti sarà Alberto Pirelli. Valota è riuscito nell’intento, ha ricostruito la sua memoria familiare fino in fondo: «Ho scoperto che mio padre è morto in una marcia della morte tra Vienna e Mauthausen. Mi hanno proprio indicato il luogo preciso, sono fortunato: so dov’è».

Differenze abissali

Il fil rouge, allora. Quello che intreccia queste vite tra loro, e che lega tutte loro a noi, oggi. «Mi chiedo spesso: come potrebbe essere il fare, ora? – si interroga Elvira Pajetta – Mio padre ripeteva sempre che era fondamentale conoscere l’economia, la geografia e le lingue, e io credo che questi siano i parametri essenziali ancora oggi. Se fosse vivo, si misurerebbe con la globalizzazione, con le novità geopolitiche, credo lavorerebbe coi giovani, pur in questo assoluto vuoto di rappresentanza. Questo è un mondo abissalmente diverso da quello in cui ha vissuto lui: eppure io credo che il bisogno umano di lottare per la libertà, l’uguaglianza, la fraternità o, per dirla in chiave moderna, i diritti, non possa che riprodursi ancora e ancora».