Nel 1983 esce a Lisbona un film di Raoul Ruiz girato nel 1981 nella foresta labirintica del Parco della Pena a Sintra, città alchemica e misterica alle porte di Lisbona. Raccontava la deambulazione di un gruppo sopravvissuto a un incidente aereo lungo i sentieri biforcati e borgesiani di un territorio magico. Era prodotto da Paulo Branco, mitico artefice di tanto cinema portoghese e europeo. Ora Branco dirige anche un festival il Leffest, Lisbona & Sintra Filmfestival, giunto alla sua 12° edizione, che si dipana nella “foresta” di sale tra Lisbona e Sintra e dove si è potuto vedere a fine novembre il meglio del cinema estremo, non riconciliato, d’autore che ha circolato ,in Europa e oltre, quest’anno. Oltre a un concorso con anteprime e a una selva di retrospettive, omaggi, sezioni tematiche. Un festival-labirinto entro cui si circolava vivendo un plaisir del cinema oggi difficilmente recuperabile ( l’unico paragone sono le giornate del festival di Taormina di venti anni fa dirette da Enrico Ghezzi). Si trascorreva tra retrospettive complete di cineasti di culto come Paul Schrader, il kazako Darezhan Omirbayev ( amato da Godard), Mike Leigh, un portoghese eclettico e colto come Joao Botelho, omaggi a Walter Salles ( presidente di giuria), Mario Martone ( premiato alla carriera nella serata di anteprima europea del suo nuovo Capri-Revolution in uscita il 20 dicembre), David Lynch, con un tributo Waiting for Mr Lynch, articolato tra corti rari, documentari e mostre video-fotografiche (Small Stories, Psichogenic fugue, concepita da Sandro Miller con un John Malkovich che si trasforma a vista nelle più perturbanti apparizioni lynchiane). Ci si inoltrava nei sentieri di resistenza delle “utopie” filmiche declinate, a cura di Ines Branco, con una retrospettiva poetico-politica che racchiudeva sotto il titolo Un desiderio chiamato utopia film d’epoca ( da Preston Sturges ad Alexander Kluge, da Larry Clark alla eccezionale parabola politica del 1929 Frammenti di un impero di Fridrikh Ermler, da Harun Farocki a Chris Marker, da Mambety a Akomfrah) e versioni integrali di film mitici come Torre Bela di Thomas Harlan, sull’occupazione nel 1975 “dei garofani” delle terre in Alentejo da parte del movimento cooperativo rivoluzionario, presentato da Roberto Perpignani, che lo montò e da Chester Harlan, o recuperi di gioielli filmici come First Russian, poema cinematografico del 1967 di Evgeny Schiffers su un gruppo di utopisti della Rivoluzione d’ottobre che vanno sull’Altai a fondare una comunità futura. In più incontri con cineasti irriducibilmente sperimentali come Artur Aristakisyan, Lizzie Borden, Sylvain George, e, per misurare il polso della contemporaneità politica del festival, un ciclo tematico, con annessa tavola rotonda, su Neoliberalismo, seme del populismo e dei nuovi fascismi. Insomma, per passeggiare nel labirinto di visioni del Leffest, bisognava tenere nel pugno il “filo di Arianna” dello sguardo aperto e pronto a scoprire connessioni, echi, ardite giravolte fantastiche, estetiche, etiche e politiche. Tra i film in concorso ci si poteva immergere in esperienze filmiche intense e pregnanti. Nell’ipnotico pianosequenza di un’ora che suggella, in 3D, l’ininterrotta soggettiva di un flaneur in cerca d’amore e di redenzione nella piovosa notte di una città cinese che sembra un incubo alla Céline in Long day’s into night di Bi Gan; nel deserto dell’umano disperso e scomparso delle deambulazioni di sopravvivenza compiute dal protagonista dello splendido In my room di Ulrich Kohler; nelle interferenze tra paesaggio immoto e fluviale del Kazakhistan e paesaggio tecnologico in The river di Emir Baigazan ( vincitore del premio principale); nel tessuto familiare dissipato e beckettiano di Ray & Liz di Richard Billingham ( altro premio). Ma soprattutto, tra concorso e fuori concorso, nelle folgoranti visioni di alcuni film straordinari: Seducao da carne di Julio Bressane,( premio della giuria) elegia nietzschiana tra umano e non umano dove il territorio indiano, brasiliano e le rocce triangolari di Sils Maria si intersecano nell’empatia tra lacerti animali e connubi erotico-mitologici (Leda e il cigno), dove irrompe improvviso lo squarcio del mattatoio in Le sang de betes di Franjou. Season of the devil , il nuovo Lav Diaz, musical politico che scorre nelle circonvoluzioni della selva filippina assediata dal demoniaco controllo https://libertadifrequenza.it/programmi-radio/programmi/newswip/674-la-forma-cinematografica-del-reale-da-bazin-a-netflix.htmlmilitare e percorsa da apparizioni terrifiche o trasfiguranti. High Life , fantascientifica deriva di Claire Denis che congettura una “natività” nella astronave di uomini e donne perdute che sembra fluttuare in una nebulosa alla Solaris. Deux dames sérieuses e Deux Rèmi, Deux delizioso dittico, a distanza di quasi quasi un trentennio, con al centro il tema del doppio, tra Jane Bowles e Dostoevskji, con il retrogusto di un gioco da bambini cocteeauniano, girato da Pierre Leòn, critico-cineasta di Trafic, amico-cinefilo di Biette e Daney. Un film-evento, esperienza borgesiana, percorsa dalla “memoria fertile” di tutto un mondo di immaginario fantastico latinoamericano ( da Cortsazar a Borges, da Bolano a Bioy Casares) erano le quattordici ore di La Flor di Mariano Llinas, congeno cinematografico che ha la forma efflorescente del labirinto e che ha rispecchiato vertiginosamente la filosofia sottesa al festival. Girato in dieci anni da un giovane argentino (che ha lavorato con un regista amico e collaboratore di Borges come Hugo Santiago) somiglia a un film-aleph il cui centro si sposta e la cui circonferenza è dappertutto. Figlio di uno scrittore surrealista Llinas sembra assimilare l’esperienza del cinema propugnata da Breton e compagni: entrare e uscire dalle sale per vedere solo pezzi di film di genere e “montarli” con la propria macchina ottica memoriale in modo da farne risultare una sorta di ircocervo filmico. Interpretato da quattro attrici che scivolano da un ruolo all’altro, La Flor, si suddivide in sei episodi che internamente si rimandano l’un l’altro e che si giocano su altrettanti omaggi simulativi e obliqui ai generi cinematografici: l’horror di serie B che riecheggia Val Lewton, il film di spionaggio alla Hitchcock o alla Carol Reed, il musical con i suoi sogni implicati, il documento antropologico, il film-diario alla Duras, e, in una abbacinante variazione, l’omaggio a Renoir in cui Llinas rifilma come un film muto, nel più assoluto silenzio, un capolavoro come Une partie de campagne, ambientandolo nella Pampa tra gauchos e jeune filles en fleur, salvo a far irrompere il sonoro fuori campo del film renoiriano, con la struggente musica di Kosma e la voce incantevole di Sylvia Bataille, mentre sullo schermo sfrecciano degli areoplani in una parata celeste che solca i nostri occhi e ci commuove e incanta ( come le circonvoluzioni degli areoplani su Brescia coinvolgevano Franz Kafka, che disse a Max Brod che la visione di una parata aerea è il vero cinema.). Vedendo questo film e i molti altri capolavori che, come luci di una costellazione infinitamente sfrecciante nella mappa labirintica del cielo-cinema, punteggiavano il Leffest comprendiamo come le immagini di un film si incarnano nella esperienza delle nostre visione congiungendo passato, presente e futuro nel movimento della e-motion.