Con quattro stacchi dal basso su un sedere seminudo che farebbero sembrare di buon gusto equivalenti inquadrature di Michael Bay, Fast&Furious 7 apre sullo sfondo di una «guerra» d’auto (dove Dominic/Vin Diesel porta la moglie Letty/ Michelle Rodriguez nel vano tentativo di farle recuperare la memoria). Il vero soggetto di questo settimo capitolo della franchise ad altissima velocità iniziata nel 2001 da Rob Cohen, per la Universal, appare poco dopo, quando un primo piano strettissimo degli occhi blu di Paul Walker occupa l’intero schermo.

Cut! ed è un’inquadratura altrettanto ravvicinata del suo piede che preme con insistenza l’acceleratore. Un totale della scene rivelerà subito dopo che Brian O’Conner (il personaggio di Walker) in realtà è al volante di un noiosissimo minivan famigliare, di cui il pilota provetto ha così poca dimestichezza che non riesce nemmeno ad aprire le porte. Ma, considerando che l’attore è morto schiantandosi ai 150 all’ora a bordo di una Porsche (che non guidava lui), nella grezza, giocosa, franchezza che caratterizza la serie, Furious 7 mette in scena subito un problema di cui, nemmeno i geni della Weta Digital possono aiutarlo a liberarsi, e cioè quello della ridondanza tra la scomparsa prematura di una delle sue star e l’identità stessa delle serie.

Trattandosi di una franchise costruita sull’accumulazione iperbolica di lamiere contorte e fumanti, il fatto che Walker sia morto in uno spettacolare incidente d’auto (il cui girato è stato puntualmente postato su Youtube) non è cosa da poco. Ed è quella ridondanza, quella permeabilità del film con la morte – rivisitata ritualmente, di car crash in car crash, per 2 ore e 17 minuti, che dà alla visione un effetto/affetto extra.

Non completamente dissimile da quello che si provava, in The Crow, guardando Brandon Lee – rimasto ucciso sul set da una pallottola vera inserita per sbaglio nella canna di un’arma di scena – cadere a terra crivellato dai proiettili sullo schermo. Stavamo veramente assistendo alla sua morte? ù

Non stupisce che nel week end di apertura, Fast&Furious 7 (aiutato anche da una campagna pubblicitaria fatta letteralmente sulla pelle del co-protagonista) abbia totalizzato un incasso stratosferico di 384 milioni di dollari (di cui circa 147 in USA e 7 solo in Italia) tirando dalla sua quasi all’unanimità anche un establishment critico generalmente incline a trattare i Fast & Furious con sufficienza. Se i prodigi digitali di Peter Jackson e company fanno sì che la produzione non abbia dovuto sostituire Walker, mancato a metà riprese (come quando Larry Cohen aveva clamorosamente rimpiazzato Bette Davis con Barbara Carrera a metà di Wicked Stepmother), il taglia cuci digitale, effettuato anche con la collaborazione dei due fratelli minori dell’attore, Caleb e Cody, è molto meno interessante di quello mitopoietico.

Ancora meno ha senso ha interrogarsi sull’opportunità, o meno, di finire il film postumo (prossimamente sui vostri schermi Philip Seymour Hoffman e Robin Williams). Perché è chiaro: fin dal primo piano di quegli occhi blu blu, Brian O’Conner è già un fantasma, ed è così che aleggia nel film. L’unico punto interrogativo è come lo scriveranno fuori dalla storia, non prima di averlo fatto scampare numerose volte alla sorte.

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Non roviniamo la sorpresa ma Dom e Brian avranno un ultimo duetto, volante a volante, sulle note di See You Again di Wiz Khalifa, seguito – in un ardito salto completamente fuori dall’universo del film, da un montaggio di clip.

Dall’anarchismo asciutto, molto cormaniano dell’episodio originale, con gli anni Fast & Furious si è progressivamente gonfiato di budget, di taglia, per il numero dei personaggi e stilisticamente parlando. Dalle strade di Los Angeles, il reach oggi è globale: dopo il Giappone e il Brasile, è la volta dell’Azerbaijan e Abu Dhabi, più una puntatina a Santo Domingo. Con l’aggiunta della monumentale muscolatura di Dwayne Johnson (aka The Rock) a quella di Vin Diesel, nel quinto episodio della serie, gli stunt sempre più incredibili, e il discorso sempre più insistente sulla famiglia, Fast &Furious sotto la guida di Justin Lin (autore dei quattro episodi migliori, insieme al primo) si è evoluto in una specie di The Avengers proletario, senza superpoteri, e politically incorrect. Annunciato da un piccolo cameo nell’episodio 6, l’arrivo, in Furious 7 di Jason Statham, nel ruolo di un ex dei servizi segreti britannici che vuole vendicare il fratello ucciso, e di Kurt Russell, in quelli di funzionario dell’intelligence americana, porta al film anche un tocco di The Expendables. Pur senza l’autoironia consumata di «Sly».

Scritto, come gli ultimi quattro, da Chris Morgan, e diretto da James Wan (più a suo agio nei labirinti orrorifici di Insidious e Saw che nell’azione a grosso budget) Furious 7 ha una trama che ruota intorno a un programma computer che permette la sorveglianza in tempo reale di chiunque, e dell’hacker che lo ha inventato. Dom e i suoi devono recuperarlo per Kurt Russell, mentre Jason Statham vuole farli fuori. Auto (tra cui una Subaru!) che si paracadutano giù da un aeroplano, che sfrecciano sospese nell’aria tra un grattacielo e l’altro, che si scontrano e piroettano su se stesse come un Demolition derby coreografato da Ballando con le stelle. Tre le scene più belle (probabilmente per i colori – oro, ambra, beige, panna e il rosso del vestito da sera di Michelle Rodriguez – è un corpo a corpo tra donne). See you again very, very soon.