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Un fallimento costruito nell’era Marchionne

La fabbrica Fca a Pomigliano D'ArcoLa fabbrica Fca a Pomigliano D'Arco

L’«auto per ricchi» È singolare come la crisi che sta attraversando l’auto elettrica sembri suscitare presso alcuni settori della politica (e probabilmente, ma celatamente, anche del sindacato) una strana nostalgia dell’«era Marchionne». La […]

Pubblicato 10 giorni faEdizione del 25 settembre 2024

È singolare come la crisi che sta attraversando l’auto elettrica sembri suscitare presso alcuni settori della politica (e probabilmente, ma celatamente, anche del sindacato) una strana nostalgia dell’«era Marchionne».

La miopia rispetto alla possibilità di una transizione verso l’elettrico, a più riprese mostrata dal manager italo-canadese durante la sua gestione di Fiat prima e di Fca dopo, viene ora rivalutata anacronisticamente come una forma di lungimiranza rispetto alle difficoltà che il settore sta mostrando a livello europeo a sostenere una domanda di massa di veicoli elettrici.

Questa strana condiscendenza della posterità sembra dimenticare che proprio lo stesso Marchionne ha posto le radici per la crisi strutturale del settore automotive in Italia, che non solo sono antecedenti rispetto alle problematiche poste dalla transizione all’elettrico, ma addirittura rischiano di amplificarle notevolmente rispetto a quanto avviene in altri paesi produttori.

La strategia su cui Fca ha puntato il suo rilancio – e che non ha caso è stata presentata all’opinione pubblica come «piano Marchionne» (ma in realtà di piani ce ne sono stati diversi) – si basava quasi esclusivamente sulla concentrazione in Italia della produzione di veicoli cosiddetti premium, ovverosia a più alto valore aggiunto e dunque con più margini di guadagno per l’impresa, mentre puntava sulla delocalizzazione delle produzioni con minori margini verso paesi col costo del lavoro più basso (Polonia, Turchia e Serbia, per restare al solo marchio Fiat).

Nel 1999 (Marchionne sarebbe diventato amministratore delegato del gruppo nel 2005), in Italia si producevano più di un milione di veicoli a marchio Fiat, e solo poco meno di duemila Maserati (per citare un marchio su cui l’azienda ex-Lingotto sembrava puntare molto).

Nel 2018, anno della scomparsa del manager, le auto a marchio Fiat prodotte in Italia erano scese a poco più di 300mila, mentre le Maserati si erano più che decuplicate, superando la quota record di 34 mila unità prodotte.

Il totale delle auto assemblate nel nostro paese si dimezzava però drasticamente, passando da oltre 1 milione e 400mila a poco più di 670mila.

Gli anni successivi, complice anche la crisi Covid, hanno visto non solo la continuazione di tale trend negativo – con la produzione di automobili caduta sotto la fatidica quota di mezzo milione, che solo l’anno scorso è stata faticosamente ri-superata – ma anche il crollo dello stesso segmento premium su cui Fiat-Fca-Stellantis aveva puntato tutte le sue carte italiane.

Questo si è riverberato sulla crisi di marchi come Maserati e Alfa Romeo che hanno portato alla chiusura dello stabilimento di Grugliasco e al ricorso intensivo alla cassa integrazione in quello di Cassino.

E se la casa italo-americana e più recentemente francese, ma con sede fiscale in Olanda, ha forse beneficiato di tale strategia dal punto di vista dei suoi risultati finanziari (nel cui conto va però aggiunta anche la dismissione di aziende strategiche come Magneti Marelli e Comau), il conto dei «piani Marchionne» lo hanno pagato le lavoratrici e i lavoratori. Non solo quelli di Fiat-Fca-Stellantis, ma anche e quelli impiegati nelle aziende di un settore della componentistica che solo troppo recentemente ha iniziato ad acquisire margini d’indipendenza rispetto alla posizione dominante dell’unico grande produttore nazionale.

Sergio Marchionne, foto LaPresse
Sergio Marchionne, foto LaPresse

La riduzione del volume delle commesse da parte di Stellantis ha infatti generato un ricorso strutturale agli ammortizzatori sociali e un’agguerrita competizione sui costi tra le imprese della filiera.

Il risultato è che, nell’ultimo decennio, mentre negli altri paesi produttori l’occupazione nel settore è cresciuta notevolmente – eccezion fatta per la Francia -, in Italia è invece faticosamente rimasta stabile, attestandosi a poco più di 150mila lavoratori diretti, a cui si sommano altri centomila lavoratori indiretti.

Un totale molto inferiore a quello di 700mila addetti millantato da Giorgia Meloni qualche anno fa, proprio per criticare la decisione Ue di fermare la vendita di auto con motori a combustione a partire dal 2035.

Su questo sfondo, i rischi della transizione all’elettrico appaiono moltiplicati in Italia in un settore che ha già affrontato una dolorosa riconversione: quello del passaggio alla produzione di auto per soli ricchi.

Di fronte a tale scenario, i sindacati hanno ripetutamente richiesto a gran voce l’intervento di vari governi, non solo per costringere Stellantis a rispettare gli impegni occupazionali, ma anche per mettere a punto un famigerato «piano dell’auto», sul modello di quello francese, in grado di rilanciare la produzione nazionale.

Il dubbio è che casi come quello della ex-Gkn di Campi Bisenzio, o quello ancora più recente dell’ex BredaMenarinibus (ora Industria Italiana Autobus), salvata dal pubblico nel 2014 e già in corso di privatizzazione, mostrino come un piano dell’auto non sia più sufficiente, senza un ripensamento strutturale del settore verso una mobilità che sia sostenibile sia dal punto di vista ambientale che da quello sociale.

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