Mentre sto scrivendo ho la fortuna e il privilegio di poter guardare gli alberi dell’Orto Botanico di Pisa che si stagliano nel cielo in un quadro senza prospettiva, quasi come in un dipinto di Cézanne. Dopo molto tempo sento gli uccelli cinguettare e i cani abbaiare. Mi alzo per prendere un libro nell’altra stanza e, affacciandomi alla finestra che dà sulla via che porta alla Torre Pendente, non vedo nessuno per strada, i negozi, i ristoranti e le pizzerie chiuse e nel silenzio assordante che riempie la via, non posso non pensare alla fiumana di persone di tutte le razze che durante tutto l’anno si muovono incessantemente con azioni sempre uguali eppure sempre diverse. Penso a quanto può essere smarrito oggi chi non può lavorare né guadagnare, penso a coloro che rischiano lavorando, ma penso anche a come potrebbe essere una vita dove al rumore di fondo delle auto si sostituisca il suono degli esseri viventi, dal frusciare degli alberi al parlare degli animali, in un mondo più lento e meno ansiogeno.

ARNALDO MOMIGLIANO, storico antico che dovette fuggire dall’Italia in seguito alle leggi razziali del 1938, ebbe a ricordare che «la misura dell’inatteso è infinita». Oggi siamo nell’inatteso. Quando questo accade il primo tentativo di risposta è quello di cercare di inquadrare l’evento inaspettato nei propri schemi mentali e culturali. Lo sapeva già Democrito il quale faceva originare la credenza negli dei e nella religione dalla paura nei confronti dei fenomeni irregolari della natura, una cometa, un fulmine. Alla paura si sostituisce pian piano lo stupore, allo smarrimento il bisogno di conoscenza.

IL CORONAVIRUS è un evento inatteso, di fronte al quale, a causa della sua epocalità, dobbiamo rivedere molte delle nostre certezze filosofiche e teoriche. Una pandemia di questo genere nell’età della cosiddetta globalizzazione rende superflua e inutile, ad esempio, la filosofia dello «stato d’eccezione» che andava bene, forse, nel secolo scorso e probabilmente fino al 1989, cioè fino alla caduta del Muro di Berlino, quando nella sinistra occidentale si cercavano pratiche di libertà compatibili con un comunismo alternativo al cosiddetto socialismo reale sovietico e cinese. Ma arrivò il neoliberismo e mise le cose a posto. Smantellò l’organizzazione del lavoro di fabbrica, abbatté il potere operaio, spostò, aumentandoli, gli spazi dello sfruttamento e delle diseguaglianze, aziendalizzò i servizi dello stato sociale come la sanità, la scuola e l’università, smantellò lo stato sociale. Aveva ragione Mark Fisher quando parlava di Realismo Capitalista. Il mondo come una grande azienda la cui filosofia pratica è la competizione, l’individualismo, la messa ai margini della cooperazione e della solidarietà confinate nel mondo del volontariato, la libertà e l’eguaglianza come diritti che convivono sullo stesso piano con l’onnipotenza e il desiderio di sopraffare l’altro.

QUESTO FA SÌ che, oggi, ogni tentativo da sinistra di denunciare le sopraffazioni dello stato coercitivo in nome della libertà si confonde con l’idea di libertà la cui espressione estrema è offerta dagli americani che vanno in farmacia a comprare le mascherine ma anche nell’armeria a comprare fucili e pistole. Tutto ciò in democrazia e, appunto, non in nome dello stato d’eccezione, bensì della libertà individuale intesa come identificazione con la proprietà privata così come, in fondo, l’aveva teorizzata John Locke alla fine del 1600 e poco dopo meravigliosamente descritta da Daniel Defoe nel suo capolavoro Robinson Crusoe.
Quando nell’isola Robinson vide un’orma si spaventò e cominciò a costruire un muro, il primo di una lunga serie che dalla letteratura (fino a Kafka) è passato alla realtà storica delle barriere israeliane, statunitensi, nigeriane, ungheresi, turche e ora per un’Europa che non è Europa. Quando la sinistra oggi lotta in nome della libertà, non riesce quasi più a distinguere tra una libertà il cui limite è il rispetto della libertà dell’altro e una libertà in cui l’altro è soltanto un limite all’espansione del proprio ego.

QUESTO VALE per gli individui come per gli stati e lo stiamo vedendo ora in Europa e in Usa. In questa confusione non ci servono metafore come il rizoma di Deleuze e Guattari, che non ci fanno uscire dall’immagine neoliberista della vita sociale, mentre la teoria foucaultiana del potere-sapere deve essere delimitata e rilocalizzata. L’ultimo Foucault si era reso conto che il potere non è un male in sé, ma va esercitato senza trasformarlo in dominio.

TORNIAMO allora al coronavirus. La pandemia ci sta insegnando semplicemente che ne possiamo uscire solo se la cooperazione prevale sulla competizione, il senso collettivo sull’individualismo, la sanità e la scuola non saranno più aziende alla ricerca del Pil, il debito pubblico può aiutare a ricostruire quello stato sociale che il neoliberismo ha smantellato. Non credo né allo stato d’eccezione né al capitalismo che pianifica. Oggi nel capitalismo più che mai prevale, al contrario, ciò che Melville fece dire al capitano Achab e cioè che il fine era folle ma i mezzi erano razionali. Dobbiamo fermare la follia del fine e ricercare, nel disincanto, la poesia di un altro mondo possibile, perché quello in cui viviamo assomiglia a una danza di topi dentro una nave che affonda. Se non sarà la pandemia, prima o poi ci faranno annegare i disastri ambientali. Sì, la poesia della vita, l’unica cosa per cui valga veramente la pena di lottare e di lottare insieme per l’eguaglianza reale in un mondo diverso.
Il disincanto di una politica realista forse è necessario, ma non sufficiente. Dalle mie radici siciliane ho imparato che il narcisistico culto individualistico del disincanto ci ha portato, come ebbe a osservare amaramente Leonardo Sciascia, a non credere alle idee e a vantarcene come espressione di una realistica intelligenza superiore di chi ha visto tutto e riduce ogni sentimento a retorica. È stato ed è un grave errore, appunto, esso stesso retorico.

A FORZA DI CERCARE i mezzi che non troviamo, perdiamo il senso del fine perfino quando parliamo e scriviamo da sinistra e su questo il neoliberismo ha vinto. Voglio ciò che temiamo di dire perché, troppo presi dalla nostra posizione di critici disincantati ma assuefatti, abbiamo pudore a parlarne. Voglio il tempo lento per una vita poetica, che non è tale se non è per tutti, e lo voglio proprio ora che l’inatteso frantuma le nostre sicurezze, mette a nudo le nostre paure fisiche, sconvolge le nostre fragilità conoscitive.

È l’unico motivo che oggi può spingere, da sinistra, a una lotta che, di fronte a una crisi economica che ci devasterà e opprimerà ancora di più i deboli e gli sfruttati, pur dovremo fare, dopo che ci siamo chiesti dove eravamo e come eravamo prima che tutto questo inatteso accadesse. Se come, si dice, la politica è la scienza del possibile, allora dobbiamo dire proprio ora che un altro mondo è non solo necessario, ma anche possibile.