Anche il festival più blasonato di Francia quest’anno ha fronteggiato le agitazioni degli «intermittents du spectacle», che protestano con forza contro la riforma del sussidio di disoccupazione voluta dal governo. A Montpellier e ad Avignone sono stati annullati molti spettacoli, ma la posizione del Festival de l’Art Lyrique di Aix en Provence è piuttosto speciale nel panorama francese: la significativa presenza di mecenati privati e di un pubblico che paga anche fino a 250 euro per un biglietto ha indotto il sindacato interno, dopo la cancellazione del Turco in Italia di apertura, a scegliere forme diverse di protesta (con interessanti tavole rotonde improvvisate in giro per la città), garantendo l’andata in scena degli altri spettacoli. Anche se un gruppo di intermittens armati di tamburi, ha trasformato in uno snervante happening sonoro niente affatto handeliano la prima di Ariodante del 3 luglio.
Nonostante ciò è stato uno degli spunti più validi del Festival, questo Ariodante di Handel che Richard Jones immagina ambientato in una magione contadina della Scozia ottocentesca (scene e costumi, bellissimi, di Ultz). Spettacolo claustrofobico negli spazi come nell’ossessione di una morale religiosa bigotta, attanagliante e sessista.
Via tutti i riferimenti cavallereschi e le notturne suggestioni protoromantiche, siamo in un clima quasi da Magdalene: il duca d’Albania Polinesso, severo ministro di fede che sotto la tonaca nasconde tatuaggi alla Easy Rider, è tanto perverso da vendicarsi del rifiuto di Ginevra facendola passare per ninfomane depravata, fra la disperazione di tutti. Si arriverà fino all’esorcismo, mentre le danze (con i sognanti intermezzi di burattini creati da Nick Barnes e il suo gruppo) raccontano il bivio poco esaltante fra un futuro felice «casa e famiglia» e il vergognoso destino della prostituta di strada. Non a caso allo scioglimento del dramma, mentre tutti festeggiano, Ginevra e la fantesca Dalinda abbandonano di soppiatto casa e scena, valigia alla mano, per cercare un mondo in cui alla figura femminile sia riservata tutt’altra considerazione. Forza non poco il libretto Jones, ma la regia è perfetta come un orologio, nonostante si cammini spesso sui letti e sui tavoli.
Estremamente varia e sensibile la direzione di Andrea Marcon che respira insieme ai cantanti e, alla guida della Freiburger Braockorchester, si ricava un ruolo da protagonista nelle danze e negli accompagnamenti degli ariosi di Ariodante e Ginevra, i passaggi più sperimentali della partitura. Magnifici gli interpreti, dall’Ariodante intensissimo di Sarah Connolly, al Polinesso davvero esaltante di Sonia Prina, dal vigoroso re-pater familias del basso Luca Tittoto alla Dalinda nevroticamente pirotecnica di Sandrine Piau, al virile Lurcanio di David Portillo.
Totalmente calata nella stupenda parte di Ginevra anche Patricia Petibon, nonostante qualche portamento e fissità di troppo. Fra gli altri spettacoli un applauditissimo Flauto magico dalle fresche atmosfere naive (somigliante a tratti a quello visto in inverno a Parigi per la regia di Robert Carsen ) firmato da Simon McBurney con gli interventi video-rumoristici di Finn Ross e Gareth Fry. Brillante direzione di Pablo Heras-Casado, e cast equilibrato in cui spiccavano il Papageno di Thomans Oliemans e la regina dela notte di Katryn Lewek.
Nel piccolo auditorium disegnato da Tadao Ando nel conservatorio Darius Milhaud, William Kentridge e i suoi collaboratori firmano invece la messa in scena video di una toccante esecuzione della Winterreise Schubertiana offerta dal baritono Matthias Goerne e dal pianista Markus Hinterhuser. Forse il primo di tanti spettacoli sui lieder schubertiani, a memoria di chi scrive, che, senza rivelare ragioni di ineludibile necessità, abbia almeno evitato di mortificare la fantasia del pubblico e la mirabile lettura degli interpreti.