Sin da piccola, Janine Altounian ha la percezione che la sua famiglia sia scampata a qualcosa di terribile. Spesso sente la nonna materna ripetere: «Abbiamo perso tutto! Abbiamo dovuto abbandonare tutto laggiù!». Laggiù è la Turchia, dalla quale i genitori di Janine sono dovuti fuggire in seguito alla decisione del ministro dell’interno Talaat di deportare forzatamente la popolazione armena in quella che si rivelerà una marcia della morte. Questo vissuto ha reso l’atmosfera di casa Altounian pesante, pervasa dal ricordo di un antico dolore che per molti anni resterà però indefinito.
La peculiarità del genocidio armeno, che porterà alla morte di un milione e mezzo di persone, sta proprio nel drammatico risvolto della negazione. Si tratta di una pagina di storia sanguinosa che è stata cancellata e che sino ad oggi non ha trovato riconoscimento da parte del governo turco. Solo crescendo e affrontando un lavoro analitico Janine Altounian riesce a trovare le parole per raccontare il vissuto personale, iscrivendolo nella dimensione storica alla quale appartiene. A questo lavoro di memoria l’intellettuale francese ha dedicato tutta la vita, occupandosi in particolar modo dei risvolti psichici connessi all’esperienza traumatica del genocidio.
Incontriamo Altounian a Trento, durante una giornata di studio incentrata sui traumi collettivi, familiari e individuali organizzata dal Cerp. Raffinata ed elegante, la studiosa si dimostra felice di farsi intervistare dal quotidiano co-fondato da Rossana Rossanda, traduttrice di un suo scritto nel libro Ricordare per dimenticare. Il genocidio armeno nel diario di un padre e nella memoria di una figlia (Donzelli, 2007).
Quando ha sentito parlare per la prima volta del genocidio armeno?
Sono cresciuta in una famiglia che rispondeva al dolore, al senso di soffocamento, con il lavoro. Sapevo che ero armena e che venivo da una storia particolare, ma è stato solo grazie alla scuola e a un lavoro analitico che sono stata in grado di trovare le parole per raccontare il mio vissuto. Mi sono resa conto veramente di fare parte di una storia collettiva solo nel 1975, quando in Francia è stato pubblicato il primo libro, Un génocide exemplaire di Jean Marie Carzou. Ho iniziato a informarmi, a leggere libri, a incontrare intellettuali armeni in diaspora.
Non ha mai affrontato questa esperienza con i suoi genitori?
Sì, ma non così chiaramente. I miei genitori non erano persone istruite e non parlavano bene il francese. Possedevano le parole della quotidianità, ma non quelle, decisamente più complesse, per raccontare il genocidio. Quando andavo dalla mia nonna materna la sentivo spesso lamentarsi del senso di perdita. C’erano poi anche le espressioni del cuore – i sospiri – che mi facevano intuire che c’era in ballo qualcosa di spaventoso. Mancava però quel linguaggio storico, universale che io stessa ho trovato solo grazie ai libri e agli incontri che ho successivamente avuto con intellettuali armeni in diaspora. Quando ero piccola mia nonna materna mi aveva raccontato che lei e mia madre erano state deportate a Konya con dei treni bestiame. Recentemente, mi è stato chiesto di scrivere la postfazione del volume Sur la route del l’exil di Aram Andonian.
Nel libro, che racconta la deportazione e lo sterminio degli intellettuali armeni di Istanbul, vi è una descrizione del viaggio su quei treni di cui mi parlava mia nonna. Solo leggendo Andonian ho realizzato per la prima volta che tra quelle persone c’era anche mia madre e che all’epoca era una bambina di soli quattro anni. Per una vita intera avevo portato in me questa informazione, quello che io chiamo un «affetto congelato». Leggendo il libro di una terza persona sono riuscita ad interiorizzare ciò che sapevo da sempre.
Esiste veramente un linguaggio in grado di esprimere orrori indescrivibili, quali quelli di un genocidio?
Non avrei potuto scrivere questi libri se non passando per la lingua intellettuale del mio paese d’accoglienza, acquisendo i modi di pensare e di scrivere di questa Francia dove sono nata e cresciuta. Sono comunque una delle poche che tratta le ripercussioni psichiche del genocidio armeno. Ci sono molti libri che trattano questo episodio in chiave storico-politica ma quasi nessuno che parli della trasmissione dei traumi connessi a questo fatto storico.
Scrive per lei o per gli altri?
Non l’ho fatto per gli altri. Ho scritto perché in me c’era qualcosa che doveva uscire. Nel 1977 mi venne chiesto di intervenire a una conferenza sui bambini migranti, all’inizio pensai che non avevo niente da dire. Poi, qualcosa cambiò. Amo molto l’Andromaca di Racine ed è stato proprio ragionando su quel simposio che mi resi conto che Andromaca era un’immigrata, un’esiliata che si lasciava alla spalle un paese sterminato, Troia. Mi identificai con lei e lessi la sua storia alla luce della mia esperienza di armena. Nel mio libro Ouvrez moi seulement le chemins d’Arménie (edito da Les Belles Lettres nel 1990, ndr) cito alcuni passaggi di questa straordinaria tragedia di Racine: «Qual tema può recare un fanciul, che sopravvive alle perdite sue? / Inver degna cagion de lor timore un fanciullo infelice, che ancora non sa ch’Ettore fu suo padre e ch’or servo è di Pirro. / L’hai udito dolersi di quei mali a quai tu lo condanni e ch’ei non sente?».
Questi versi traducono esattamente lo stato di ignoranza sul quale mi interrogavo. Ero solo una bambina e non capivo bene di cosa si trattasse, ma sentivo che c’era un malessere che pesava su di me. Il fanciullo infelice di Racine è figlio di un uomo, Ettore, che è stato ucciso. I mali che non riesce a sentire sono invece gli «affetti congelati» di cui parlavo. Identificandomi con Andromaca, capii che avrei avuto molto da dire in occasione del convegno. Scrivo perché sono presa dalla necessità di liberarmi di qualcosa che sento il bisogno di raccontare.
In «De la cure à l’écriture» si sofferma sul fatto che il fine ultimo dello scrivere sia il ritrovare l’amore per l’eredità trasmessa dai genitori. Può approfondire questo concetto?
L’idea principale del libro è che per capire e raccogliere l’eredità trasmessaci dai nostri genitori è prima di tutto necessario trovare le parole per esprimere ciò che si prova, tradurre quindi il proprio vissuto nella lingua del paese d’accoglienza. Mettendo per iscritto ciò che si prova si arriva all’elaborazione psichica del trauma originario. Nel libro spiego come la scrittura non sia altro che una continuazione ed un approfondimento di questo lavoro di rielaborazione. Grazie a tale processo si arriva a ritrovare l’amore che i genitori, schiacciati dal peso di ciò che avevano vissuto e dal bisogno incessante di lavorare per costruire delle condizioni di vita sicure, non avevano potuto dare ai loro bambini.
Nei suoi libri si sofferma spesso sulla funzione terapeutica della scrittura, sulla trasmissione e la rielaborazione dei traumi. Ha dedicato gran parte della sua vita a trattare questi temi, tuttavia continua a scrivere. Pensa quindi che, in fin dei conti, non vi sia una reale possibilità di guarigione?
Sì, lo penso. In realtà il processo di elaborazione non porta tanto a una vera e propria guarigione quanto a un cambiamento a livello psichico. Un cambiamento che ci permette di avvertirci non più come delle vittime, ma come depositari di una verità ignorata da molte persone, che ci fa sentire fieri di un’eredità particolare e ci spinge a creare qualcosa nella nostra vita personale, politica e professionale.
Nel corso del suo intervento, ha parlato della transgenerazionalità del dolore, del fatto che, come suo padre non riusciva a raccontarle ciò che aveva vissuto, così le sue figlie non sono in grado di farle delle domande. Crede che, riprendendo il titolo di uno dei suoi libri, l’intraducibilità di un tale dolore si perpetui nelle generazioni?
Credo proprio di sì. Ho un nipote di 23 anni che studia scienze politiche e con lui mi confronto spesso su temi quali il negazionismo o su aspetti storico-politici del genocidio armeno ma, né con lui né con le mie figlie vi è uno scambio a livello dell’esperienza traumatica. A casa non ne parlo mai, a meno che non mi venga chiesto di farlo. Tuttavia credo di poter affermare che ognuna delle mie figlie potrebbe presentare – e uso volontariamente il condizionale – alcuni «fantasmi» legati al nostro trauma familiare. Chiunque ha in sé degli aspetti determinati dalla storia dei propri genitori.
Nel corso della conferenza, ha affermato che un lavoro come il suo non sarebbe più pensabile nella Francia dei nostri giorni… No, effettivamente non sarebbe più pensabile. I libri che ho scritto sono un modello del periodo che io chiamo della «Francia democratica»: purtroppo sono tante le cose che sono cambiate, ma tre sono i punti sui quali mi preme insistere. Nei miei saggi, parlo spesso del mio amore per la scuola francese, laica, pubblica e democratica. Questo tipo di istituzione non esiste più: la scuola del pensiero ha perso il suo potere. I bambini migranti non possono più integrare le loro culture a quella del paese d’accoglienza. Questo è il primo ostacolo ad un lavoro come il mio. Il secondo è invece legato al mondo professionale: quando ero piccola gli immigrati avevano molte possibilità di impiego, il che permetteva loro, come è successo ai miei genitori, di poter mandare i propri figli a scuola. L’ultimo ostacolo è invece legato alla crescente importanza per l’Europa della Turchia negazionista. Nel 2010 il Senato francese aveva votato una legge che sanzionava il negazionismo. Tale legge è stata invalidata nel febbraio 2011 dal Consiglio costituzionale. Da allora, reputo il mio lavoro completamente inutile.
Cosa pensa del primo ministro turco Erdogan verso il quale la stampa europea ha pareri spesso contrastanti?
L’attuale governo turco è assolutamente negazionista. Vi è un numero spaventoso di oppositori politici che sono imprigionati e non hanno diritto di parola. Tuttavia voglio ricordare che, in seguito all’assassinio del giornalista Hrant Dink, cittadino turco di origine armena, è nato in Turchia un movimento liberale, minoritario certo, ma che lotta per l’affermazione della democrazia.
Ci sono poi persone come lo storico Taner Akçam, che ha scritto un libro sul genocidio armeno. Vi è, insomma, chi lotta perché la verità storica venga riconosciuta ma il negazionismo dello stato turco è radicale e non vedo grandi possibilità di cambiamento. Non credo in ogni caso che potrei mai perdonare ciò che è stato fatto alla mia famiglia; dialogare sì, perdonare no.
Qual è il suo rapporto con l’Armenia?
L’Armenia non rappresenta molto per me. Ci sono stata una sola volta e mi sono quasi commossa a vedere le sue magnifiche chiese e monasteri. Tuttavia non mi sono mai sentita così francese come quando sono stata in Armenia.
E quello con la Turchia?
I miei genitori sono nati in Turchia e parlavano turco, anche se mio padre è stato scolarizzato in una scuola armena. Mia nonna cantava bellissime canzoni turche. Tornando a me, evito di andarci. Ho paura di quello che potrei trovare. Amo molto il cinema turco e spesso ammiro gli stupendi paesaggi che vengono ripresi. Ed è questo che temo: arrivare in Turchia e ritrovarmi a dover constatare: «Dunque è questo ciò che veramente mi appartiene e che ho perduto».