Almeno hanno avuto il buon gusto di non mettere molta enfasi nel comunicato dove hanno dato l’annuncio dell’arresto e dell’estradizione. Nessuna conferenza stampa, solo la notizia: dopo dieci anni di «latitanza» (le virgolette sono d’obbligo, come vedremo) è stato fermato in Messico e poi immediatamente trasferito a Santa Cruz, in California, il cinquantaseienne Christopher Doyon.

Cioè il «comandante X» – come si faceva chiamare all’epoca delle sue scorribande in rete – o l’hacker dei senzatetto, come lo conoscevano tutti.

La Corte per il distretto settentrionale della California, anche se si è limitata al minimo indispensabile, era obbligata per legge a rendere note le unità investigative impiegate nell’operazione.

E si è venuti così a sapere che l’arresto è stata un’azione coordinata nientemeno che dall’Fbi, dal distaccamento dell’Fbi a Città del Messico, dall’agenzia messicana di investigazione del crimine, dall’Unidad Especializada Contra el Secuestro y Extorsión, dall’Istituto nazionale dell’Immigrazione, dall’Interpol, dal Department of Homeland Security statunitense, e dall’Office of American Citizen Services sempre a Mexico City.

Un esercito, uno spiegamento gigantesco, insomma, costato decine di migliaia di dollari, per arrestare un homeless. Un senza casa. Che tutti sapevano dove fosse.

Sì, perché Commander X da qualche tempo viveva in una bidonville all’estrema periferia della capitale centroamericana, dove aveva chiesto asilo politico. E viveva di piccoli lavoretti e di elemosina, come aveva spesso fatto in tutta la sua vita. Senza mai nascondersi: ogni giorno si recava al McDonald’s dove utilizzava la rete wi-fi per scrivere sui social, dove buttava giù riflessioni politiche a mo’ di comunicati e prendeva appuntamento con chi voleva incontrarlo.

Quasi sempre giornalisti. Appuntamenti che comunque si erano un po’ diradati negli ultimissimi tempi. Non come anni fa, quando uscì il suo libro – autoprodotto – Behind The Mask, col sottotitolo: uno sguardo dentro Anonymous.

Fu un mezzo successo editoriale e tanti andarono a intervistarlo. Poi l’interesse scemò ma lui ha continuato a fare la vita di tutti i giorni. Tutti hanno sempre saputo dove rintracciarlo.

Così come tutti hanno sempre saputo che l’ostinazione della giustizia americana contro di lui non aveva e non ha molte motivazioni. Se non quella di inviare un segnale ad altri hacker, quelli con una storia più difficile da ricostruire.

Sì, perché Christopher Doyon in qualche modo si è prestato a esser perseguitato: personaggio un po’ naive, semplice, al quale – perché non dirlo? – piaceva apparire, piaceva considerarsi leader. Anche se poi i fatti – almeno quelli che per la giustizia americana hanno una rilevanza penale – hanno dimostrato che non lo era. Ma lui, generosissimo, si esponeva sempre.

I suoi guai cominciano molti anni fa. Viveva, sopravviveva, alla bell’e meglio a Santa Cruz. Fuggito dalla casa di un padre violento nel Maine da adolescente, viene arrestato perché voleva vendere pasticche di Lsd a un agente in borghese, a un concerto dei Grateful Dead. In carcere segue corsi di sociologia ma conosce soprattutto i primi rudimenti dei linguaggi telematici.

Una volta fuori non sa dove andare e arriva a Santa Cruz. Vive da homeless, in una città devastata dalla speculazione che ha cacciato i vecchi abitanti per far posto ai nuovi impiegati. Che a loro volta sono stati «cacciati» da una San Francisco sempre più cara.

Migliaia di sfratti a Santa Cruz, così nel 2010 le vittime, decidono di portare la protesta direttamente davanti al tribunale della Contea distrettuale. Allestiscono un campo, con tende, tavoli, sedie, letti improvvisati: il «Peace Camp». Chiedono misure per far fronte all’emergenza abitativa.

Christopher Doyon ovviamente è lì con loro. Li organizza. E dentro quella comunità fa proseliti a quel microscopico gruppetto che ha formato assieme ad alcuni amici: si fanno chiamare nientemeno che «Fronte Popolare di Liberazione».

Dura due mesi l’occupazione del piazzale davanti al tribunale. Poi, ad ottobre, arriva la polizia, la repressione, i manganelli. Doyon viene arrestato, anche se per poche settimane. In un clima tesissimo perché quell’occupazione fu pagata anche con una vittima: in un’operazione di polizia – che anticipò lo sgombero – una donna, amica di Doyon, rimase uccisa.

Così, sfruttando quel po’ di conoscenze telematiche che aveva acquisito, Doyon trasforma il gruppo di amici in un collettivo di «cyber guerriglieri». Il primo obiettivo? Esattamente la contea di Santa Cruz, meglio: gli uffici della Contea. Che vengono presi di mira da un attacco DDos. Si usava così all’epoca: si fanno convergere su un sito decine di migliaia di richieste di accesso, al punto che le pagine Web prese di mira vanno in tilt. Non funzionano più.

L’attacco ai computer della Contea riesce, almeno un po’, perché i siti istituzionali vengono sì bloccati ma solo per mezz’ora. Non di più.

Nel settembre 2011, Doyon – che nel frattempo si fa chiamare Commander X – viene rintracciato e incriminato. L’accusa: «Danni intenzionali a un computer protetto», che è l’espressione che si usa per indicare la strumentazione degli uffici pubblici.

Ma anche il procuratore ha dovuto tener conto del carattere limitato della protesta: tant’è che chiede un risarcimento danni per poche migliaia di dollari. Attenzione, però: poche migliaia di dollari ma comunque sopra al tetto dei 5mila dollari di danni che, negli States, trasformano l’attacco DDos in un «crimine federale».

È in questo periodo, che Doyon potrebbe essere entrato in contatto con Anonymous. Le sue competenze telematiche non sono eccezionali, quindi dà una mano come può, partecipa a campagne, non molto altro.

Capisce però – non incontrando perché non incontrerà mai nessuno di persona ma scambiandosi frasi in chat, impossibili da decriptare – qual è lo spirito che anima il gruppo. E lo condivide. Lo scriverà nel libro: «Come nasce un’operazione di Anonymous? Semplicemente dalla rabbia. La rabbia pura e semplice per le ingiustizie».

Il processo a Santa Cruz comunque va avanti, il suo avvocato – un amico, anche lui arrestato durante lo sgombero dei senza casa – gli fa ottenere la libertà su cauzione. Ma Doyon, una volta libero non sa proprio dove trovare le migliaia di dollari decisi dal tribunale e se ne va. Se ne va in Canada. Senza soldi, senza sostegni.

Si arrangia. Ma continua l’attività di hacktivist: partecipa all’operazione contro Paypal, responsabile di bloccare i finanziamenti a Wikileaks. Così come prova ad aiutare l’organizzazione di reti alternative per chi combatte il regime egiziano e tunisino.

E in Canada scrive anche il suo libro. Dove la narrazione in prima persona si confonde tra fatti, ironia, autoironia, sfacciataggine e fantasia. Con confini sempre più labili. Un libro che «va preso con le molle», se si vuole usare l’eccessiva cautela del critico letterario di vice.com, Patrick McGuire.

Un libro dove racconta dell’altruismo, degli slanci che animava Anonymous – che lui ha lasciato nel 2013 –, accompagnata dalla descrizione del progetto di una «ferrovia sotterranea» fra gli Stati uniti e il Canada, che dovrebbe essere utilizzatadai dissidenti per fuggire. Ferrovia che lui stesso avrebbe progettato o più semplicemente sognato, non lo fa capire.

Comunque sia, lui in Canada ci arriva. Quando però sente che non è più aria, si trasferisce in Messico. Chiedendo asilo politico. Vivendo in una baracca. Dove continua a fare le stesse identiche cose: prova ad organizzare la comunità, prova a darle anche i primi strumenti telematici di comunicazione. Insegna loro come ci si può connettere a una rete wi-fi aggirando i blocchi. Ed è lì, nella bidonville recintata, che gli agenti in borghese sono andati ad arrestarlo.

Fra i primi a dare la notizia è stato un regista che lo conosceva: Brian Kloppenberg. Sì, proprio l’autore di We Are Legion, il documentario su Anonymous, dove appare – nascosto dietro la tradizionale maschera di Guy Fawkes – lo stesso Doyon.

E il regista ha rivelato che in quella comunità di Mexico City dove la polizia non è ben vista, gli agenti si sono presentati numerosissimi e in borghese, spacciandosi per funzionari dell’ambasciata statunitense.

Comunque sia Doyon si è fatto arrestare senza opporre resistenza ed è stato poi trasferito in California. Dove è stato interrogato e dove s’è fatto un altro po’ di carcere. In attesa del processo. A difenderlo, ovviamente pro bono, il suo vecchio amico avvocato. Rischia grosso però stavolta: perché oltre alle accuse di hacking ora deve rispondere anche di non aver rispettato i termini della libertà su cauzione.

Così, dodici anni dopo, la Contea potrà finalmente rifarsi su chi ha paralizzato per mezz’ora i suoi sistemi operativi, potrà finalmente punire l’hacker dei senzatetto.