Un «esercito di poveri» che «non sembra trovare risposte e le cui storie si connotano per un’allarmante cronicizzazione». Questa è l’immagine usata dalla Caritas nel Rapporto 2018 sulla povertà e sulle politiche di contrasto presentato ieri a Roma in occasione della giornata mondiale di lotta contro la povertà. Nel nostro paese il numero dei «poveri assoluti» – gli individui che non possono spendere più di 554 euro in un piccolo comune del Sud, 817 in una grande città del Nord – «continua ad aumentare» e ha raggiunto il record di 5 milioni e 58 mila individui poveri, 1 milione 208 mila minorenni, 1 milione 112 mila tra i 18 e i 34 anni. La povertà aumenta con il diminuire dell’età e colpisce i più giovani, oltre che i nuclei dove i «capofamiglia» hanno un basso tasso di istruzione.

«DAGLI ANNI PRE-CRISI ad oggi il numero è aumentato del 182%». Un dato che dà il senso dello stravolgimento prodotto dalla crisi e che ha spinto anche la politica italiana, storicamente sorda alle urgenze sociali, ad occuparsene mescolando, un’ispirazione familista e pauperista con un’altra ispirata al controllo della vita morale delle persone, dei loro consumi, la formazione e l’istruzione, imponendo con il sussidio di povertà detto «di cittadinanza» proposto dall’attuale governo anche un obbligo al lavoro gratuito per otto ore per lo Stato. La distinzione tra la protezione e l’autonomia sociale delle persone vulnerabili e una visione neoliberale che distingue oggi solo tra poveri meritevoli e immeritevoli, «morali» e «immorali» è politicamente decisiva, ma quasi mai seriamente interrogata nel conflitto in atto tra maggioranza Lega-Cinque Stelle e l’opposizione del Pd.

IL CONFLITTO, apparente, vede oggi contrapposti il «reddito di inclusione» («ReI») e il cosiddetto «reddito di cittadinanza». Il primo è stato istituito dai governi del Pd nella scorsa legislatura e risulta essere una versione minore del «Reis» sostenuto dalla Caritas e dall’«Alleanza contro le povertà», un cartello di associazioni che comprende i sindacati confederali. Ieri sono tornati a chiedere l’estensione di una misura che ha raggiunto solo una parte dei poveri assoluti, con risultati non soddisfacenti. L’importo medio è 206 euro. Il secondo è, com’è ormai noto, lo strumento cardine della legge di bilancio che il presidente del Consiglio Conte si è impegnato al vertice europeo in corso.

IL DIRETTORE DELLA CARITAS don Francesco Soddu ha chiesto che la nuova misura «tenga conto dell’esperienza maturata nell’attuazione del ReI». A suo avviso, «non basta dare un contributo economico per uscire dalla povertà, ma una considerazione maggiore degli attori in campo. Non è un problema delegabile a coloro che si interessano di poveri. Il rischio è la cronicizzazione del fenomeno». La critica sembra essere duplice: la prima è rivolta all’approccio restrittivo alla povertà, comune al «ReI» del Pd e al sussidio dei Cinque Stelle: considerare il povero perché privo di un lavoro standard, in base all’appartenenza alla famiglia e non anche un individuo che ha bisogni, desideri, aspettative. La seconda è rivolta alla gestione della povertà. Il «reddito» dell’attuale governo considera i Centri per l’impiego unici interlocutori dei beneficiari e non sembra contemplare la collaborazione con i comuni e il «welfare locale». Tale collaborazione si è rivelata carente al punto da avere vanificato l’impatto sull’inclusione sociale del «ReI». Non è escluso che questo possa accadere quando saranno resi noti i particolari del nuovo sussidio di povertà fortemente vincolato all’obbligo al lavoro e alla formazione. In ogni caso, tanto nel «ReI», quanto nel «reddito di cittadinanza» prevale una logica lavorista e l’atteggiamento inquisitorio e disciplinare.

LA POLEMICA del segretario Pd Maurizio Martina, secondo il quale l’abolizione del «ReI» sarebbe un «colpo fatale», non è molto cogente. Il «ReI» incuba il «reddito di cittadinanza» ed è la sua estensione colossale. Così come è improprio, per non dire politicamente discutibile, l’uso che Di Maio si è proposto di fare dei poveri italiani (ma non di quelli stranieri che risiedono, e lavorano o hanno lavorato, nel nostro paese da meno di 5 anni:saranno esclusi dal sussidio). Ieri il vicepresidente del Consiglio ha sostenuto che “Cinque milioni di poveri contano più dei vari Juncker, Moscovici, Bankitalia, Fmi, Pd e Forza Italia”. Bocciando la legge di bilancio, come da più parti si annuncia, la Commissione Ue sarebbe responsabile anche di un attacco a queste persone. Le responsabilità politiche, ed economiche, anche di questa istituzione sono indiscutibili nell’austerità. Ma è difficile ignorare come la flessibilità di bilancio concessa ai governi precedenti sia stata usata per sgravi alle imprese (i 18 miliardi del Jobs Act), per bonus Irpef elettorali (gli 80 euro di Renzi) e altri bonus cosmetici. Con questi stessi soldi è stato istituito il ReI – che risponde formalmente, ma non materialmente, al “pilastro sociale” dell’Unione Europea. Questo sussidio oggi costituisce l’anticamera del nuovo sussidio di povertà che ha gli stessi scopi: cercare di reintegrare i “poveri” in un mercato del lavoro sempre più feroce, mantenendo le loro povertà. La propaganda, da parte di tutti, non dà tregua. E continuerà, sulle spalle dei poveri.

NELL’INCERTEZZA che lo circonda ancora, ieri Di Maio ha sostenuto che il «reddito» è la soluzione contro la povertà perché considera la persona globalmente, non solo economicamente. E ha assicurato che «la funzione di realtà come la Caritas non verrà mai meno e lo Stato deve facilitarne il compito». Ai centri per l’impiego, e al «welfare locale» sembra essere stato attribuito il compito di governare le povertà.