A dispetto dell’ambientazione rurale, delle riprese ravvicinate sulle tecniche di mungitura Petit Paysan di Hubert Charuel è un dramma dai risvolti inaspettati. Pierre (Swann Artaud) è un cowboy della Francia nordorientale, si occupa delle vacche da latte della fattoria dei genitori con dedizione e spirito di sacrificio, tanto da far passare in secondo piano tutta la sua vita personale. A occupare i suoi pensieri è la minaccia di una grave infezione bovina per cui basta una sola vacca infetta a dover sopprimere tutta la mandria: così decide di passare all’azione quando scopre che il morbo è arrivato anche nella sua stalla.

A questo punto il film assume e porta avanti fino alla fine i codici del thriller con una suspence lievemente ammorbidita dai toni della commedia che l’ansia trattenuta del protagonista carica di tensione. L’obiettivo è eliminare la vacca, occultare la carcassa dribblando il controllo della severa sorella veterinaria, mandare i genitori in vacanza in Corsica perché non si mettano a contare il numero preciso dei capi e non doverne rendere conto ai controlli dei sanitari. La tensione che si crea è in netto contrasto con la pacifica ambientazione che dovrebbe avere il film dedicato alla vita agricola, così come da tempo nel cinema francese si vedono esempi ambientati ora in zona Rhone-Alpes ora in Auvergne o Limousin (grazie ai finanziamenti regionali).

Lontani dal genere documentario, si arriva a sfiorare l’horror (è completamente inventato il morbo che fa trasudare sangue sul dorso degli animali) tenuto bene sotto controllo, a evocare perfettamente il panico degli allevatori con il dramma dell’antica tubercolosi delle bestie degli anni ’50 fino alla mucca pazza degli anni ’80. Petit Paysan presentato alla Semaine de la Critique a Cannes è stato una rivelazione, ha vinto ben tre premi César come miglior film esordiente, migliore attore protagonista (Swan Arlaud) migliore attrice non protagonista (Sara Giraudeau) e lo rende particolare il sentimento di empatia del protagonista con i suoi animali, come solo nei western con i cavalli, un atteggiamento di sacrificio e dedizione come difficilmente si vede in un film.

L’elemento raggelante è forse dovuto al fatto che è stato girato nella fattoria ormai deserta del giovane regista esordiente che ha scelto la strada del cinema. Proveniente lui stesso da una famiglia di allevatori, ora che i suoi genitori sono andati in pensione non ci sarà più nessuno a occuparsi delle bestie ma, dice, ha voluto riprodurre la passione della madre per i suoi animali. Ed ha dovuto affittare trenta vacche per il film.