Inaugurata poco prima di Natale, la nuova sede della Fondazione Feltrinelli degli architetti svizzeri Herzog&De Meuron (con SD Partners) è l’ultima in ordine di tempo delle architetture «d’autore» concentrate intorno al quadrante Garibaldi-Repubblica. È quella che definisce il Piano Integrato d’Intervento di Porta Volta-Pasubio: un lungo lotto che sottende sul piano urbanistico le stesse finalità di quello più esteso e complesso prima richiamato e che consideriamo una tra le più impegnative manifestazioni di gentrificazione passata per riqualificazione urbana.
Dopo le fanfare e le lodi che hanno accolto l’inaugurazione della Fondazione, torniamo allo steccone cuspidato di via Pasubio per alcune brevi considerazioni sulla qualità delle idee e la misura delle decisioni che guidano l’urbanistica di Milano e la sua area metropolitana. Si può partire da un dato di realtà: per definirlo finito il lungo blocco (circa duecento metri) poggiato a terra su via Pasubio manca della sua prosecuzione di là del secondo casello daziario di Porta Volta.

Corpi speculari
È un pezzo dell’edificio importante, con gli stessi caratteri formali dell’altro costruito, seppure ridotto in lunghezza, ma senza il quale il progetto degli svizzeri è un’altra cosa. Il volume doveva essere realizzato a spese del Comune che solo nel 2014 si accorse di non avere le risorse economiche per compiere l’opera. Tentò di cedere la volumetria con una gara ma com’era prevedibile, andò deserta.
Il risultato di replicare l’effetto gateway building, ossia di segnare un punto d’ingresso alla città (o a una sua porzione) come Herzog&De Meuron fecero a Basilea con il complesso terziario e residenziale di St. Jakob Turm (2003-2008) è per il momento rinviato.

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Per ammirare i due corpi speculari e simmetrici a ridosso di Porta Volta con i caselli ridotti a dimora di lillipuziani, non resta che accontentarsi di un render in notturno e per il momento attendere. Lo stesso riguarda la sistemazione esterna a giardino sul lato interno, dove sono ancora presenti i resti delle mura spagnole. Si dovrà aspettare la piantumazione degli alberi e la sistemazione delle superfici a terra per verificare se quella striscia di futura area verde sarà uno spazio pubblico e non una sorta di largo spartitraffico.

Nel percorrerla adesso, disadorna e liscia dal cemento, il pensiero non va certo al vivaio e al lungo tunnel del lavaggio auto che lì rendevano felici appassionati di piante e motori, ma più indietro ancora nel tempo, negli anni degli albori del moderno, durante i quali se i milanesi si fossero accontentati di simili ritagli di verde – come pure gli fu promesso all’epoca del piano regolatore del Beruto – non avrebbero mai visto il Parco Sempione.
Non è insensato chiedersi perché si decida per un monolite come quello di Herzog&De Meuron a sede della propria fondazione consegnandola come evento di valore urbanistico alla città.

Non è una questione di gusto né una ricerca delle ragioni che hanno portato alla «castità semantica» come solo gli svizzeri – ha ragione Stanislaus von Moos – sanno fare. Va però segnalato che non ci troviamo davanti a un progetto che commenta polemicamente il ridondante e caotico sfoggio linguistico che pullula intorno. Non siamo nella Michaelerplatz viennese e i due svizzeri non sono Loos. Interessa, casomai, evidenziare la spessa crosta di retorica che ormai accompagna ogni produzione corrente di architettura, che nasconde la realtà dei fatti, soprattutto quando questi investono la sfera pubblica coinvolgendo, come nel nostro caso, un’istituzione di alta cultura com’è la Fondazione Feltrinelli: operante come un qualsiasi altro soggetto immobiliare nella città.

Partiamo dall’inizio. Dalla relazione degli uffici comunali già eravamo a conoscenza che il progetto di riqualificazione degli svizzeri si sarebbe distinto per «l’alta qualità architettonica proposta sia nelle nuove architetture che reinterpretano la tradizione lombarda, sia nel disegno e nell’organizzazione degli spazi aperti». È evidente che qui la storia dell’architettura serva solo a legittimare. Senza perdersi nelle pagine del Reggiori o del Cantù, sarebbe bastato superare Chiasso o aver letto qualche capitolo di Natural History di Philip Ursprung (CCA-Lars Müller Publishers, 2002) per comprendere che quella sezione lunga e monotona di tetto a doppia falda, così alto e spiovente, proviene da un altro mondo, che nulla centra con la «tradizione lombarda». Si sarebbe chiarito che il repêchage dall’architettura alpina – in altre parole, dall’anonimo vernacolare engadinese – al quale si aggiunge il razionalismo di Aldo Rossi, arriva fino a noi con la sua carica «perturbante» e straniante – nell’accezione che ne ha dato Anthony Vidler (The Architectural Uncanny, 1992) – solo per sorprenderci.

L’essenziale e l’ordinario
Durante il percorso gli svizzeri hanno però perso la dimensione umana della prima e quella poetica del secondo. Dentro la stecca di Herzog&De Meuron c’è dell’altro, forse la cosa più importante per il committente e quella più propriamente svizzera: rendere quanto più essenziale e ordinario il progetto come cifra della sua «distinzione culturale». Inoltre, se la modernità ha definito i propri canoni di bellezza con la funzionalità e la normalità anche in relazione all’economicità, qualche dubbio sorge, non fosse altro nel pensare ai consumi per climatizzare tutta quella superficie trasparente.

In ogni caso, sono i principi della «Nuova Semplicità» – una volta modellata a proprio uso sia l’eredità di Max Bill sia il riduzionismo formale e tecnologico di Mies van der Rohe – che hanno permesso di far convergere interessi imprenditoriali con valori estetici, le finalità comunicative del brand (l’edificio ospiterà anche Microsof Italia) con la «forma forte» di una facciata ridotta a un laconico, pur leggibilissimo, piano di sezione. Herzog&De Meuron provano a tenere architettura e arte tra loro in equilibrio in un gioco che, da tempo, ha mostrato i suoi limiti. Un’eternità è trascorsa da quando inaugurarono il loro megastadio per i giochi olimpici di Beijing. Oggi ha ancora un senso costruire per «puritana civetteria» un’architettura che non avrebbero condiviso neppure i protagonisti della Glasarchitektur? Fino a quando dovremmo vedere ancora separati cultura e città dai diritti sociali dei cittadini?