Di Fredric Jameson, scrive Marco Gatto in una monografia puntuale e completa (Jameson, Futura, collana «Fondamenti», pp. 192, euro 15, con una prefazione autobiografica dello stesso Jameson), si può dire che «nulla di culturale gli sia alieno».

INTELLETTUALE ENCICLOPEDICO e originale storico della contemporaneità nelle pagine di Jameson è possibile incontrare brillanti digressioni sulle sacre scritture e i romanzi di Dos Passos, originali intrecci tra le sinfonie di Mahler e gli scritti di Manfredo Tafuri sull’architettura, considerazioni mozzafiato sul cinema di Antonioni e l’arte di Warhol, l’epica e il romanzo storico, Cartesio e l’analisi della forme di produzione nel capitalismo moderno.

Esploratore dei cambiamenti di paradigma che hanno investito il mondo sin dagli anni Cinquanta, quando il giovane americano si immerse nelle onde del pensiero dialettico più originale e indomabile e riemerse qualche anno dopo con i primi trofei di una caccia prodigiosa: Marxismo e forma (1971) o L’inconscio politico (1981), per esempio.

LA LETTURA di Theodor Adorno, György Lukács, Walter Benjamin, Herbert Marcuse, Ernst Bloch, Lucien Goldmann o Jean-Paul Sartre ha dato vita anche a libri come Una modernità singolare (Sansoni, 1994).
Quella di Jameson è una costellazione di pensieri, basata sulla critica dell’economia politica e dei suoi rapporti con l’estetica, la cultura e la società, che ha dato vita al libro probabilmente più noto della sua produzione ciclopica: Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo (Fazi, 2007). Il «postmodernismo» è l’esito di una «riduzione della realtà alla testualità e della società a una visione totalizzante del linguaggio: l’essere è linguaggio», scrive Gatto.

QUESTA CHIUSURA della storia nella produzione culturale fine a se stessa, come se la cultura si producesse da sola, è l’esito di una rivoluzione culturale capitalista per cui la realtà è l’esito di un gioco linguistico insuperabile, autonomo e separato dalle forze sociali che nulla apparentemente possono contro questo universo che sembra essersi autonomizzato in un rinvio permanente a un mondo autosufficiente.
Per Jameson questa strategia va storicizzata e considerata come una delle forme prodotte da una dialettica occultata o trasfigurata dal postmodernismo, non diversamente da altre logiche culturali espressioni di modi di produzione diversi.

L’operazione critica di Jameson consiste nel dialetticizzare ciò che vorrebbe presentarsi come statico e elusivo, incentrato sui fantasmi delle origini o giochi linguistici, identitari e simbolici ricorrenti nella società dello spettacolo integrale. «Storicizzare tutto» e considerare il «tutto» dal punto di vista di un pensiero in movimento, e di una storia mai chiusa in una gabbia d’acciaio di un Soggetto onnipotente, allegoria di un capitalismo che cancella ogni alternativa.

Rispetto al morfinismo politico che esala dai retrobottega del nichilismo estetizzante e individualistico la prassi alla quale richiama Jameson è una boccata d’aria fresca. Il suo invito a comporre «cartografie» sottintende l’idea per cui l’esercizio della critica è irriducibile a un solo sistema filosofico.

L’OBIETTIVO DELLA CRITICA è la ricerca dei semi del futuro in un’epoca che si ostina a cancellarlo. Invece il «futuro» non è un’astrazione, ma la riscoperta di una «totalità» in movimento, frutto della compresenza di tempi storici differenti nei quali si agitano quelle lotte per l’egemonia di cui ha parlato Antonio Gramsci e che restituiscono il senso di un dinamismo incessante basato sulla «dialettica fra l’Uno e il Molteplice».
Se il lavoro culturale è un fatto di militanza, allora la liberazione ha bisogno di aggredire e afferrare l’esistente senza sconti o resti. Jameson, definito da Gatto «diagnostico del presente», ci mostra la strada. ro.ci.