Il corpo è un territorio fisico e metaforico di sperimentazione, emancipazione da una società d’impostazione patriarcale, rivendicazione e denuncia per le artiste latino-americane (incluse quelle statunitensi di origine ispanica), considerate «pioniere» in un periodo storico quanto mai tumultuoso, come sintetizza il titolo della mostra Radical women: Latin American Art, 1960-1985 (a cura di Cecilia Fajardo-Hill e Andrea Giunta) al Brooklyn Museum di New York (fino al 22 luglio).
Nel video Preparação 1 (1975) la brasiliana Leticia Parente esprime il concetto di riappropriazione della propria identità (che estende al genere femminile) attraverso alcuni gesti che compie davanti a uno specchio. Cancellazione e ridefinizione: la donna si pettina guardando l’immagine di sé riflessa nello specchio del bagno. Prende del cerotto bianco, lo srotola, ne taglia un pezzo e lo usa per sigillarsi la bocca; poi con il rossetto, sullo stesso nastro, operando una sorta di frottage ridisegna le labbra. Taglia un altro pezzo di cerotto e tappa un occhio per riaprirlo attraverso il disegno sul cerotto stesso, ripetendo l’operazione con l’altro occhio. Occhi aperti – spalancati – quelli tracciati dall’artista che si guarda ancora un attimo nello specchio, vestita di questa sua nuova identità, prima di aprire la porta e uscire fuori.

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CUCIRE IL DISSENSO
Un messaggio rivoluzionario nella sua semplicità in cui c’è anche la riappropriazione dello spazio domestico come scenario del cambiamento, metafora perfetta del significato stesso dell’importanza della consapevolezza all’interno dei meccanismi volti alla ricerca e scoperta di un nuovo io. Il contesto in cui opera Parente è anche politico, come quello di colleghe, soprattutto argentine e cilene: un gesto di cancellazione analogo alle cuciture della cilena Catalina Parra, sia nella fotografia Cicatriz (’77) in cui il filo è di sutura che nella pila di quotidiani El Mecurio (l’opera è Diario de vida, ’77) con cui viene visualizzato il potere della censura. Del resto, la stessa Leticia Parente in Marca registrada (’75) aveva usato ago e filo per cucire sulla propria pelle (la pianta del piede) il dissenso e la denuncia di mancanza di libertà nel suo paese.
Non sono artiste necessariamente collegate tra loro; molte anzi sono poco conosciute (se non del tutto sconosciute) sia in ambito locale che internazionale, e poche le figure già segnalate come emblematiche (tra loro Ana Mendieta, Anna Maria Maiolino, Graciela Iturbide, Liliana Maresca, Lotty Rosenfeld, Paz Errázuriz, Lygia Pape, Liliana Porter), ma la ricerca che ciascuna ha portato avanti, nascendo da un’autentica necessità interiore, è condivisibile e sposta inevitabilmente l’attenzione dalla sfera individuale a quella collettiva.

TENSIONI E GIOCHI
Il corpo è qui associato alla violenza, ma anche alla resistenza. È rappresentato da quel grande sacco inerte (un corpo morto) che dà voce alla paura e alla tortura nell’installazione della brasiliana Carmela Gross (Presunto, 1968), mentre per la scultrice colombiana Feliza Bursztyn in Cama (1974) incarna l’immaginario erotico in una chiave ironica di auto censura che non esclude l’aspetto enigmatico. Il telo rosso si agita vibrando per una manciata di secondi, per poi fermarsi e ricominciare dopo poco tempo. La tensione prende il posto del gioco nell’atto ripetuto dalle figlie dell’artista cilena Gloria Camiruaga nel video Popsicles (1982–84): leccano un ghiacciolo da cui affiora un soldatino di plastica, che lascia loro le labbra innaturalmente tinte.
Autoritratto e femminismo, corpo come paesaggio, atto performativo, territorio da mappare, strumento di affermazione intellettuale, corpo erotico, sociale: attraverso parole chiave come queste, nelle sale dell’Elizabeth A. Sackler Center for Feminist Art (intorno a Dinner Party di Judy Chicago, la tavola imbandita per le donne più importanti della storia) e nell’ala dedicata a Morris A. e Meyer Schapiro viene ripercorso il lavoro di centoventi artiste «chicanas» (come vengono chiamate in Nord America le ragazze di origine messicana) e provenienti da quindici paesi dei Caraibi, Centro e Sud America (266 opere in tutto tra pittura, scultura, assemblaggio, video e soprattutto fotografia, incluso materiale di documentazione), frutto di una ricerca che ha visto le curatrici impegnate fin dal 2010, in collaborazione con la Getty Foundation, la University of Texas di Austin e l’Hammer Museum di Los Angeles che, nel corso del 2017, ha ospitato la prima edizione della mostra (la tappa successiva sarà la Pinacoteca de São Paulo in Brasile).
Il corpo, dunque, appare come un luogo di conoscenza, viene frammentato e analizzato con uno sguardo che va oltre l’apparenza. Per molte artiste, si tratta di decodificare la sua percezione partendo dalla superficie esterna, come i dettagli dei peli e dei pori della pelle fotografati dalla brasiliana Vera Chaves Barcellos per «tessere» un grande tappeto (Epidermic Scapes, 1977-1982) o i movimenti della danza (M 3×3), studiati fin dal 1973 dalla connazionale Analivia Cordeiro che ne ha tradotto la rigidità in un nuovo linguaggio elettronico, sperimentando per prima le nuove possibilità della computer art.

SCAMBI DI BARBE
C’è anche l’ironia a caratterizzare opere come la serie El pene como instrumento de trabajo (The Penis as a Working Tool) (1982) della messicana Maris Bustamante in cui un finto pene sostituisce il naso della protagonista. Sottolineare il ribaltamento dei ruoli e del potere che dà forma fisica a uno status sociale appartiene anche alla sequenza fotografica che documenta la performance Untitled (Facial Hair Transplants, 1972) della cubana Ana Mendieta che riscrive la sua nuova identità appropriandosi, in uno scambio di dare/avere, della barba di un suo amico.
Attraverso il linguaggio della performance si esprime anche la colombiana María Evelia Marmolejo protagonista di 11 de marzo – Ritual a la menstruación, digno de toda mujer como antecedente del origen de la vida (1981). Nelle fotografie in bianco e nero scattate da Camilo Gòmez che documentano l’azione performativa vediamo scorrere liberamente il sangue mestruale dell’artista sul tappeto di fogli bianchi sparsi sul pavimento della galleria Diego di Bogotà. Celebrare un «periodo» della vita della donna considerato impuro e fonte di vergogna diventa un punto di forza per Marmolejo che rifiuta la narrativa biblica della nascita di Eva dalla costola di Adamo. Il sangue mestruale è presente pure nell’opera fotografica Rouge et Noir (1977-78) della portoricana Sophie Rivera in cui il tampax usato è inserito all’interno di una composizione astratta che gioca sul confine tra visibile e invisibile.
Questo confine è poi marcatissimo quando si parla di corpo sociale e di rivendicazione dei diritti: la panamense Sandra Eleta mette in posa una giovane domestica seduta su una poltrona-trono, richiedendo un riconoscimento dignitoso del lavoro (esibisce un piumino-scettro in Edita (la del plumero), Panamá, mentre la brasiliana Anna Bella Geiger assume lei stessa le pose stereotipate con cui vengono rappresentati gli indios affiancando in Brasil nativo, Brasil Alienígena (1976-’77) diciotto cartoline vintage con altrettanti scatti che la raffigurano.

VOCI RIBELLI
Lo sguardo antropologico-documentario appartiene anche alle due straordinarie fotografe Paz Errázuriz e Graciela Iturbide, autrici rispettivamente di La manzana de Adán (1982-87) e Magnolia, Juchitán, México (’86), autrici sensibili e poetiche di fronte a soggetti difficili. Entrambe usano la fotografia come esercizio di opposizione politica.
Radical women: Latin American Art, 1960 – 1985 è una rassegna che ha un valore simbolico fortissimo, oltre che offrire una ricognizione significativa su un determinato periodo storico. Ascoltare questa sinfonia di voci femminili è un atto di resistenza che mette a fuoco la determinazione e la forza delle artiste nella riscrittura della storia, magari guardando anche – con dichiarato umorismo – alla cultura popolare. Lo fa la brasiliana Regina Silveira con il riferimento alla cucina e a un’arte mangiabile (un po’ indigesta per molti benpensanti) in Biscoito arte (’76) e, in particolare, Polvo de Gallina Negra (la polvere di gallina nera a cui allude il nome del gruppo è un rimedio contro il malocchio), primo collettivo femminista messicano creato da Mónica Mayer e Maris Bustamante (con la partecipazione iniziale della fotografa Herminia Dosal), attivo a Mexico City nel 1983-93 le cui azioni urbane sono state determinanti nella lotta contro la violenza sulle donne e le leggi restrittive sull’aborto.