Lady Mary è crudele, alta e filiforme, bella di una bellezza a tratti maschile, spigolosa, quasi mai sorridente. Ha una sorella bruttacchiona, biondastra, maldestra, il suo opposto. Si odiano: non vi è ragione da parte di Lady Mary di odiare Lady Edith, la sorella venuta male, sfortunata e incattivita come le sorellastre di Cenerentola. Invece, per qualche ragione incomprensibile, fra sorelle la competizione è attiva anche quando è presente una grossa discrepanza di aspetto fisico, intelligenza, brillantezza.

Dalle prime inquadrature, dalle prime scene di Downtown Abbey (la serie tv ideata e scritta dall’attore e scrittore Julian Fellowes, ambientata durante la fine dell’età Edoardiana, tra il 1912 e il 1925) Lady Mary (Michelle Dockery) è un personaggio che sfugge allo spettatore, guarda in macchina di sottecchi, di striscio, con una punta di disprezzo, come osserva tutti i co-protagonisti intorno a lei. Non è simpatica, è chiusa come un’ostrica, giudica tutti dall’alto della sua nobiltà e della sua posizione di prossima ereditiera. Nel giro di pochi minuti, dall’inizio della prima puntata della prima stagione della serie, tutte le solidità, tutte le costruzioni, tutto il grande scheletro su cui Lady Mary fonda la sua sicurezza si schianta. Potrà essere solo un uomo colui che erediterà, non lei.

E su questo primo enorme deflagrante status di svantaggio femminile nel 1912, che durerà ancora a lungo, parte la grande avventura della fine dell’aristocrazia inglese e mondiale. In un dipanarsi di alti e bassi, di tradimenti,di attrazioni repulsioni, figli illegittimi, veleni, incidenti, aborti, morti, incidenti, guerre, alla fine non si può che amare Lady Mary, sempre splendente nei suoi abiti alla moda (dagli anni Dieci alla metà dei Venti del Ventesimo secolo, si notano vistosi cambiamenti di tagli, scollature, tonalità, accessori, trucchi e acconciature), sempre avanti nelle scelte progressiste, azzardata nelle preferenze dei pretendenti alla sua mano, tutt’altro che snob nel proteggere Anna, sua cameriera personale, prendendo posizione davanti alla legge, dura e brillante come un diamante grezzo. Attraversa con quella smorfia sexy che è il suo sorriso la morte di parto dell’amata sorella minore Sybil, il successivo decesso per incidente stradale del marito Matthew, scandali notturni col morto mediorientale nel letto, lutti protratti e poi sciolti con una settimana libertina di prova con un amante che poi non presceglie come sposo e ancora una volta diviene potenziale vittima di scalpore sociale: pronta a immolarsi per il bene della famiglia Crawley, per la tenuta di Downton Abbey, ma al contempo donna moderna, veloce modello di intraprendenza lavorativa, la prima a tagliarsi i capelli alla maschietta.

Il suo contraltare è l’anziana nonna, madre di suo padre, Violet Crawley, Contessa Madre di Grantham (una magistrale Maggie Smith), sagace nobildonna old style capace di efferate stilettate verbali contro chiunque, molte delle quali dirette alla sua nipote prediletta. «Non essere disfattista, cara, fa molto classe media». «Sono una donna, Mary, e posso avere tutte le contraddizioni che voglio». «Mia cara, l’assenza di compassione può essere di cattivo gusto tanto quanto un eccesso di lacrime». «Perdonare, forse. Dimenticare mai». «La speranza è un inganno escogitato per impedirci di affrontare la realtà». «Mai confondere un desiderio per una certezza». «Se è vero o no non ha importanza. Sono le apparenze che contano». «Chi vuoi che baci una giovane vestita di nero?».

Alla fin fine, lo confesso, Lady Mary c’est moi.

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