Per Mauro Ceruti, protagonista della riflessione filosofica sul tema della complessità (docente presso l’università Iulm di Milano, fra i suoi ultimi libri c’è Evoluzione senza fondamenti per Meltemi), l’attuale crisi sanitaria archivia una volta per tutte l’idea lineare del progresso e spinge l’uomo contemporaneo ad accettare l’incertezza come condizione inevitabile dell’esistenza e a fronteggiarla nel segno di una comunità di destino planetario.

La storia dell’Homo sapiens convive da sempre con le epidemie. Nulla di nuovo dunque, o questa pandemia porta con sé segni e significati inaspettati?
I virus vanno visti anche nel tempo e nel contesto di origine e di propagazione. La loro storia comincia quattro miliardi di anni fa, molto prima della nostra. Riducendo il loro habitat naturale, con le deforestazioni, hanno sperimentato il «salto» dall’ospite animale a quello umano. La novità è che ora si evolvono in un ambiente che l’uomo ha modificato radicalmente, soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale e poi con il colonialismo. Dobbiamo capire come l’antropocene cambia la vita di questi microrganismi patogeni e cosa dobbiamo modificare noi, nel nostro modo di vivere, per potercene difendere meglio. Siamo sempre più attrezzati scientificamente per farlo, ma per affrontare il tema delle epidemie nella sua complessità, dobbiamo smettere di considerarci «padroni e possessori della natura».

Pensa che questa crisi, pure con tutte le sofferenze che portacon sé, potrà essere ricordata come un «esame di maturità» per l’uomo contemporaneo?
La pandemia ci pone di fronte ai rischi della condizione globale. La condizione umana è trasformata da un imprevisto e simultaneo aumento di potenza e d’interdipendenza. Già l’esplosione atomica di Hiroshima, nel 1945, era stata la campana d’allarme di una possibilità fino ad allora inconcepibile: l’autoannientamento dell’umanità. Da lì è nata una comunità di destino planetaria, di tutti i popoli della Terra: abbiamo scoperto di vivere in un’ecumene completamente umanizzata, dove ogni evento locale rischia di comportare, almeno in potenza, conseguenze che possono amplificarsi su scala globale. Questo oggi si rivela attraverso il volto invisibile di un virus e dilata all’estremo l’orizzonte delle responsabilità individuali e collettive. La crisi sanitaria può farci partecipare a questa coscienza in modo più intenso e forse irreversibile: perché rende evidente quanto siano complessi e inestricabili i fili della globalizzazione antropologica, economica e politica. Abbiamo, però, ereditato dal paradigma cartesiano l’abitudine a pensare che le cose abbiano una spiegazione semplice, anche se a volte non riusciamo a vederla; vorremmo sempre trovare un ordine, un funzionamento elementare nelle cose o una soluzione univoca e semplice ai problemi. Il morbo della semplificazione si accompagna, poi, alla droga della quantificazione. È anche un’urgenza morale, quindi, adottare un nuovo paradigma, che ci porti ad accettare la complessità del mondo.

Vede, come altri, il rischio che il coronavirus riesca dove i sovranisti hanno finora fallito e si riveli un’arma letale contro l’idea europea?
L’epidemia ha fatto emergere nell’immediato la scarsa solidarietà tra i partner europei, che però viene da lontano. Da molto tempo l’Ue ha privilegiato obiettivi finanziari, trascurando quelli sociali, e si è bloccata sull’integrazione politica, a parte qualche prerogativa in più del suo Parlamento. Da solo il mercato unico europeo non genera solidarietà, coesione, senso d’appartenenza, che si alimentano con la condivisione di principi, visioni, sentimenti. Poi sebbene nelle ultime elezioni europee l’onda dei partiti sovranisti si sia attenuata, però il vento dei nazionalismi continua a soffiare, trascinato dal morbo della semplificazione. Così, questa crisi ha dato nuovo vigore agli egoismi nazionali, fino all’assurdo di chiudere le frontiere anche per le esportazioni di materiale sanitario all’interno del mercato comune. I governi temono di perdere consenso nel mostrarsi solidali al di fuori dal perimetro nazionale. È ciò che tiene, d’altra parte, sotto scacco una politica comune in materia di immigrati e profughi e che ha portato a scelte scellerate come affidarsi alla Turchia per gestire il problema dei rifugiati siriani.
Ma non è scontato che per i sovranisti cresca il consenso. Il virus ignora i confini, stiamo capendo che lo stesso devono fare gli Stati, la scienza, la solidarietà, se vogliamo sconfiggerlo. Occorre ritrovare le ragioni profonde per cui è nata l’Ue, oggi ancora più attuali. L’Europa è stata costretta a imparare a diventare una e molteplice, pensando come complementari identità e diversità. Come europei abbiamo alle spalle soprattutto divisioni e guerre: la nostra comunità di destino non nasce dal nostro passato che anzi l’ha negata, è il futuro che la impone. Come settant’anni fa, la rinascita dell’Europa, se ci sarà, sarà figlia dell’improbabile. O l’Europa sarà una e molteplice o non sarà: provincia e non più centro del mondo, presidio di pace e diritti umani e laboratorio di cultura e di valori per la comunità di destino planetaria.

Nel suo saggio «Evoluzione senza fondamenti» scrive: «Sta emergendo la soglia di un’età nuova. Per poter attraversare questa soglia, siamo costretti a farci carico di quanto nell’età moderna si è cercato di dilazionare, siamo spinti ad affrontare gli eventi in tutta la loro crudezza e potenza, creatrice e distruttrice, senza confidare nel fatto che qualche ordine nascosto o senso prestabilito li possa in qualche modo disinnescare». Oggi quelle parole sembrano quasi profetiche…
L’illusione, tipica delle ideologie politiche dell’Otto-Novecento che promettevano una «salvezza» terrena, è superata. L’irruzione del negativo, della crudeltà è sempre possibile, all’interno e dall’esterno dell’uomo. Essere consapevoli della complessità umana significa riconoscere che, come dice Edgar Morin, l’uomo è anche demens, non solo sapiens. Capire il nostro legame complesso con la natura significa accettare che in essa abitano disordine e distruttività che non possiamo dominare completamente. Inutile illudersi di superare la nostra finitezza di esseri mortali. L’uomo deve imparare l’etica della comprensione, della resilienza, della resistenza alla crudeltà inestirpabile del mondo.  Infine, ciò che accade archivia definitivamente ogni credenza provvidenziale nel progresso, l’idea del progresso come legge ineluttabile della Storia e come dimensione quantitativamente misurabile con i soli indicatori di crescita e di reddito. La Storia non sta andando verso il progresso garantito, ma verso una straordinaria incertezza. E l’umanità dei nostri giorni deve apprendere a pensarsi come umanità proprio a partire dal pericolo che lega tutti i popoli allo stesso destino, di vita o di morte. Oggi tutti noi capiamo meglio che il progresso è sempre problematico e può accompagnarsi a regressioni. Non c’è la perfezione o la salvezza finale all’orizzonte, per noi umani. La storia e le teorie dell’evoluzione ci dicono che siamo esseri incompiuti e in divenire. Possiamo accrescere la nostra potenza, ma restiamo in una condizione di fragilità che adesso, dopo questa pandemia, appartiene di più alla coscienza comune, alla consapevolezza di un destino comune.
Di questa consapevolezza dobbiamo fare un punto di forza. Vale a dire: come la complessità chiede al pensiero di non frazionare, separare, ma di collegare, così questa coscienza comune della nostra fragilità può sollecitarci a un’etica della solidarietà, della fraternità planetaria. Dopo libertà e eguaglianza, protagoniste dell’Ottocento e del Novecento, la fraternità può diventare protagonista del XXI secolo.