Nella coalizione sociale Landini vede l’occasione di riformare la Cgil. Senza questa riforma, aggiunge il segretario della Fiom, il sindacato rischia di scomparire. Per capire i contenuti della battaglia politico-culturale in corso è opportuno leggere il libro di Massimo Franchi pubblicato in maniera tempestiva da Ediesse: Il sindacato al tempo della crisi (pp.176, euro 12). In un libro che contiene interviste ai segretari dei confederali, a sociologi come Giuseppe De Rita o Aldo Bonomi, precari freelance e partite Iva, Franchi delinea il campo interno ai sindacati, e in particolare alla Cgil, dov’è emersa la necessità di un’autoriforma. La dedica del libro a Davide Imola, uno dei più sensibili e attrezzati sindacalisti della sua generazione, oggi purtroppo scomparso, è indicativa. Come Imola mostrò nella sua azione, per avere un futuro il sindacato deve imparare a rappresentare il «quinto stato»: il lavoro autonomo, precario e povero, insieme a chi vive nella zona grigia tra le attività autonome ed eterodirette, ma non è riconoscibile nel perimetro del lavoro subordinato.

«Il numero di questi lavoratori aumenta costantemente e sostituirà buona parte dei lavoratori dipendenti – spiega Franchi – Queste persone hanno un’incredibile necessità di essere tutelati e, sebbene molti non lo riconoscano, di essere rappresentati». In questa cornice parlare di «coalizione sociale» non significa evocare un «nuovo soggetto politico di sinistra», come sostengono la Cgil e molte delle sue federazioni contro Landini e la Fiom. Al contrario, significa riconoscere l’attuale incapacità del sindacato a rappresentare il vasto continente del quinto stato ma, allo stesso tempo, lanciarlo in una nuova battaglia politica. «Considerare le tutele dei lavoratori autonomi e precari come diritti di cittadinanza – aggiunge Franchi – E la contrattazione sindacale come strumento per ottenerla».

Questa definizione di «contrattazione sindacale» come strumento per estendere i «diritti di cittadinanza» Franchi la intuisce a partire dalle esperienze di community e labour organizing negli Stati Uniti o di coalizione sociale in India raccontati da Valery Alzaga, Kim Moody o Arijun Appadurai. Paesi dove i sindacati tradizionali si sono coalizzati – e certo non in maniera né lineare né pacifica, considerata la loro natura «manageriale» o corporativa – con le esperienze di autorganizzazione per il salario minimo, le leghe di resistenza, le Ong in lotta contro la povertà, i movimenti anti-razzisti e le organizzazioni territoriali. «Bisogna aggiornare la definizione di alleanza dei produttori di Trentin – aggiunge -. Serve un’alleanza dei deboli, degli sfruttati, dei subordinati di chi pur essendo formalmente autonomo dipende da imprese che impongono diminuzione di diritti e tagli dei compensi».

Allargare la rappresentanza significa ampliare la base sociale e professionale del sindacato. Un’esigenza fondamentale dopo la rottura del collateralismo tra Cgil e Pd, mentre l’affermazione di Renzi ha reso il sindacato un corpo sociale senza referente politico. Fare coalizione è un modo di costruire una base politica diversa che richiama le origini inclusive del movimento operaio, quando l’azione sindacale era una pratica di cittadinanza, mentre la contrattazione era il risultato di una negoziazione politica sulla base di una lotta di classe. «Oggi è necessaria una lotta di resistenza che riporti il sindacato alle sue radici per farlo ripartire da nuove basi» conclude Franchi.

Così intesa, si capisce perché la «coalizione» allarmi gli attori della spoliticizzazione italiana: il Pd, la sua «sinistra» chiacchierona, la maggioranza della Cgil, oltre che i Cinque Stelle. All’unisono hanno iniziato a cannoneggiare Landini perché vedono in questa pratica di cittadinanza uno degli strumenti per mobilitare la società in vista dell’unificazione dei lavori e della conquista dei diritti fondamentali, tra cui c’è quello alla coalizione. Se questo dibattito resterà confinato nelle stanze della Cgil, sarà una sconfitta per tutti, e non solo di Landini. Qualora rimanesse ostaggio degli zombie della politica istituzionale sarebbe una tragedia. Questa è l’ultima possibilità per tornare a fare politica. Dopo c’è solo la restaurazione dello status quo, aspirazione insignificante per chi ieri come oggi non ha più nulla.