Un bohémien del calcio. Così qualche anno fa il sito calciomercato.com definì Stefano Cusin, provando a descrivere la passione per il pallone e per la vita che ha portato il 46enne allenatore italiano sulla panchina di tanti club all’estero. A noi piace definirlo un mister con tanta curiosità, che alle telecamere nostrane e alla Domenica Sportiva, ha preferito il mondo, culture diverse, popoli di cui non parla nessuno, in Africa come in Medio Oriente. La sua vita è un elenco di Paesi: Francia, Bulgaria, Libia, Camerun, Congo, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, dove ha allenato dopo aver gestito con un discreto successo le giovanili di Arezzo e Montevarchi.

Nell’estate 2010 la sua strada si è incrociata con quella di un portiere famoso diventato allenatore,Walter Zenga, del quale è stato il vice al Riyadh prima e al Dubai poi. Quindi la decisione di cambiare ancora. «Non lo so, penso partita dopo partita – disse Cusin in un’intervista di qualche anno fa – Sono contento di essere il secondo di Zenga e sono felice di vivere questa avventura a Dubai. Mio figlio cresce in un ambiente sano, sta imparando oltre all’inglese anche qualche nozione di arabo. Un ritorno in Italia? Non lo so, l’estero mi ha dato sempre qualcosa in più».

Intenzione rispettata e, a sorpresa, qualche giorno fa l’allenatore giramondo è approdato addirittura a Hebron, nel sud della Cisgiordania palestinese sotto occupazione militare. Non certo per soldi. Il suo club, l’Ahly al Khalil, può garantirgli un contratto minuscolo rispetto a quelli che aveva ottenuto negli Emirati e in Arabia saudita. Cusin vuole conoscere questa terra, una città storica e tormentata come Hebron, la gente del posto e, naturalmente, valorizzare tecnica e capacità dei calciatori palestinesi.

Lo attendiamo nello store di articoli sportivi di proprietà del presidente del club, Kifah al Khalil, a pochi passi dall’università di Hebron. È una bella giornata di sole e gli studenti attraversano con passo veloce la strada per arrivare in orario alle lezioni. Sorridono, scambiano battute e il loro buon umore rallegra idealmente questa città spezzata in due non dal conflitto ma, paradossalmente, dall’intesa “di pace” che 18 anni fa firmarono l’ex leader palestinese Yasser Arafat e Benyamin Netanyahu, a quel tempo al suo primo incarico di premier israeliano. Doveva essere un accordo temporaneo e invece dopo quasi 20 anni, senza alcun passo in avanti al tavolo delle trattative, ha trasformato Hebron in una luna, con una faccia illuminata e una oscura–: la zona H1 sotto il controllo dell’Anp, e la zona H2 dove in giro si vedono solo coloni e soldati israeliani e i palestinesi si rendono invisibili per non avere guai.

Come gli studenti anche il presidente Sharif sorride, ci invita subito ad entrare nel suo ufficio. È simpatico e molto motivato. Il classico khalili. Gentile, generoso, pronto ad offrirti tutto ciò che ha. Ci racconta delle restrizioni israeliane ai movimenti di club e calciatori. E dei pochi soldi a disposizione del suo team. «Ci autofinanziamo con le quote societarie che versano i membri in proporzione al ruolo e all’impegno. Qualche soldo arriva dalla Federazione Calcio Palestinese. Le nostre risorse sono molto limitate», ci spiega. Sharif è felice di aver messo sotto contratto un allenatore esperto come Stefano Cusin. Il “mister” italiano ci raggiunge poco dopo. Lo accompagna il preparatore atletico Gianluca Sorini, toscano come lui, alla sua prima esperienza fuori dall’Italia e contento di essere ad Hebron.

«La mia carriera all’estero comincia nel 2003 – racconta l’allenatore – ho fatto cinque anni tra Camerun e Congo, poi un anno in Libia dove ho vinto il campionato. Quindi ho allenato in Bulgaria dove ho conosciuto Walter Zenga che mi ha nominato suo vice negli Emirati. Avevo ricevuto buone proposte per rimanere nel Golfo ma io ho sempre voglia di scoprire posti nuovi e quando ho ricevuto la proposta del presidente Sharif, ho accettato subito». A Cusin piace lavorare in posti “particolari”. «In Africa – ricorda – ci sono dei conflitti, anche tribali, che noi non conosciamo e in Libia dove sono rimasto un anno, la tensione era molto forte anche prima della rivoluzione. Mi è sempre piaciuto andare in Paesi dove oltre ad allenare c’è modo di conoscere le popolazioni locali».
Cosa si prova, gli chiediamo, a passare dalla realtà ricca, fatta di cemento, vetro e plastica degli Emirati, a una città come Hebron. «Sicuramente si riscopre il gusto del rapporto umano – afferma con convinzione – lì viaggi in business class, ti viene a prendere l’autista e ti porta in un hotel a sei stelle dove però non parli con nessuno. Nel caso di Hebron invece viaggi in economy, ti viene a prendere il presidente che subito ti porta a cena a casa sua e non passa giorno senza che un dirigente venga a prenderti per pranzare insieme. Insomma, si riscoprono i veri valori, il contatto umano che ho sempre cercato di privilegiare».

Cusin ammette che, quando ha detto che sarebbe andato ad allenare ad Hebron, in famiglia e tra gli amici c’è stato un attimo di smarrimento. «Purtroppo si parla di questa terra sempre come un luogo di tensione e pericolo mentre io sto scoprendo una Palestina dove c’è vita, ci sono persone che lavorano e che credono nel futuro. Qui, come avevo potuto verificare anche tra i sauditi e i libici, l’aspetto del contatto umano è fondamentale. E questo valore, che noi abbiamo smarrito da tempo, finisce per rappresentare il patrimonio più rilevante in una esperienza del genere». Cusin comincia a farsi un’idea del calcio palestinese. «I giocatori sono bravi tecnicamente, come accade nel calcio di strada, che in fondo era il nostro calcio (italiano, ndr) fino a 30 anni fa. A livello tattico invece c’è parecchio lavoro da fare, nel calcio non si improvvisa, vince la squadra che è più organizzata».

Consapevole del conflitto e della questione palestinese, l’allenatore ci dice che, come ha fatto in altri paesi, intende «rimanere lontano dalla politica». Uno sforzo che, pensiamo noi, non gli eviterà di affrontare le difficoltà che hanno davanti tutti i club di calcio locali quando devono superare le restrizioni israeliane ai movimenti dei palestinesi, sportivi inclusi. Gli atleti spesso non possono lasciare i Territori occupati, non è facile importare attrezzature dall’estero, stadi e infrastrutture sportive di Gaza non poche volte sono stati colpiti dalle forze armate israeliane. Un caso noto è quello del portiere della nazionale Mahmoud Sarsak: arrestato al confine di Gaza mentre si recava in Cisgiordania per unirsi al suo team e posto in detenzione amministrativa (senza processo), iniziò uno sciopero della fame per essere liberato.

Un altro caso è quello di due giovani calciatori, colpiti un anno fa dal fuoco israeliano alle gambe mentre tornavano a casa dopo l’allenamento allo stadio di Al-Ram. Per Jawhar Jawhar, 19 anni, e Adam Halabiya, 17 anni, i medici furono impietosi: sei mesi di riabilitazione per tornare a camminare. Il campo di calcio hanno dovuto abbandonarlo per sempre.