“Ercole Lansdowne”, II secolo d.C., Los Angeles, J. Paul Getty Museum

 

Jean Paul Getty visse lunghi anni, ebbe molte donne, una grande famiglia e fu su questa terra fra il 1892 e il 1976, facendo in modo che si parlasse sempre di lui e della sua colossale fortuna. Da giovane fu quasi sempre in America ma col passare degli anni preferì ritirarsi in una magnifica casa di epoca elisabettiana nel Surrey. Scrisse più di un’autobiografia così come uno smilzo libro piuttosto spiritoso intitolato As I see it che modificò più volte. Lo incontrai in più di una occasione, sempre con Federico Zeri, che fu un grande amico di Getty. A quanto vidi, Getty rideva strepitosamente delle curiose barzellette di Federico, e molto poco, per non dire niente, di quelle degli altri incluse le mie, ma forse gli uomini molto ricchi ridono molto poco e nel 1975 Getty venne definito l’uomo più ricco degli Stati Uniti. Col tempo divenne ancora più facoltoso. La casa in cui viveva per la maggior parte del tempo, Sutton Place, era circondata da un grandioso parco dove crescevano le più antiche querce dell’Inghilterra – ispiravano molto rispetto ma poca allegria. C’erano anche diversi cedri del Libano più grandi ancora, giganteschi.
Getty comprò molte opere d’arte, non solo quadri, ma anche molti mobili, oggetti d’arte e quelle cose che si vedono nelle case dei miliardari. Non tutto era bello ma certamente era fuori dal comune. Alcuni dei dipinti erano molto famosi come una Madonna di Raffaello che aveva pagato relativamente poco essendo un lavoro non sempre accettato come interamente di mano del grande maestro. Forse erano questi i lavori che amava di più: non troppo cari ma molto discussi e famosi. Getty scrisse più volte di fare i suoi acquisti non per sé stesso ma per gli altri. Era vero? Forse. Nel grande museo che edificò a Malibu, nella California meridionale, mise piede raramente e certamente non lo fece negli ultimi anni della sua vita, dopo il 1951.
Nel volumetto Le gioie di collezionare – che risale al 1965 ed esce ora in italiano (traduzione Elena Balzano, Johan & Levi e Fondazione Luigi Rovatti, pp. 93, euro 13,00) – qualcosa si può intuire della complessa psiche di quell’uomo decisamente fuori dal comune: parlava di sé presentandosi come una persona qualunque benché non credesse per un solo momento di esserlo o di sembrarlo. Gli interessi del collezionista non seguivano l’ordine stabilito, come lui stesso racconta in quelle pagine. Una parte importante la dedicò alle antiche opere di greci e romani come il grandioso Ercole Lansdowne, un marmo alto quasi due metri databile agli inizi del II secolo d.C. e già in Inghilterra dal Settecento. In tutt’altro campo, quello dell’arte islamica, ebbe uno dei tappeti più famosi del mondo, quello proveniente da Ardabil il cui pendant si trova nel Victoria and Albert Museum. L’arte italiana, soprattutto per quel che toccava dipinti rinascimentali, quella francese, con alcuni dei mobili più fastosi dei regni dei tre Luigi, quella olandese, con tre dipinti di Rembrandt, riscaldavano la sua anima e a quanto diceva era felice di mettere gratuitamente a disposizione dei suoi connazionali americani quei tesori. Annessi al museo erano una grande biblioteca e un centro di ricerche di storia dell’arte con borse di studio e soggiorni ai quali fui invitato anche io.
Visitai Sutton Place per la prima volta agli inizi degli anni settanta, credo. Arrivai con Federico Zeri in un trenino malandato ad una stazione in the middle of nowhere dove ci attendeva un’automobile anonima come l’autista che la guidava. Da lontano la casa appariva solenne, fitti i boschi che la avvolgevano, scarsi i fiori, l’atmosfera più cupa che festosa. Mr Getty ci attendeva in biblioteca e non mi apparve antipatico ma nemmeno caloroso: assomigliava ad un segugio affaticato, l’occhio appannato ma lo sguardo inquisitivo.
Ci offrì da bere: uno sherry poco profumato, né caldo né freddo, e di lì a poco si passò a tavola. Una colazione insipida, poche parole, accorte. Federico parlava per tutti, esilarante. Il vecchio signore sorrideva e finì per ridere un paio di volte: i denti erano giallognoli ma in ordine. Mi chiese se conoscevo la sua raccolta e gli risposi che avevo visitato quel che era visibile, qua e là, anche a Los Angeles. «Qual è il mio migliore mobile?» Gli risposi che era il doppio secrétaire fatto per le figlie gemelle di Luigi XV. «E il secondo? e il terzo?»… si andò avanti per un quarto d’ora.
Arrivò un terzo ospite, un uomo elegante camuffato da arabo che parlava inglese come Gielgud. Mi sembrava un attore ma mi venne presentato come un cugino di un sovrano medio orientale. Si parlò di grandi vini ma a tavola si servì un vin ordinaire. E poi Mr Getty mi affidò ad un segretario che mi fece fare il giro della casa e mi portò nella mia stanza, spoglia, fredda, con una stufetta elettrica e un bagno da convento: «Non c’è telefono ma accanto all’ingresso c’è una cabina, se desidera il maggiordomo le darà i gettoni».
Rimasi molto impressionato da una formidabile Allegoria della Fortuna di Salvator Rosa che ora è nel Museo di Malibu. Il resto della casa sembrava ispirato ad un racconto di Agatha Christie.
Il tè non fu gaio ma Mr Getty fu loquace, il suo spirito era secco e senza friandises come il liquido che venne servito in tazze di maiolica bianca con teiera e vassoio in argento vittoriano ben lucidato. Mi fece poi accompagnare nel parco: «Le querce sono considerate le più antiche d’Inghilterra». Pensai che forse «quelle sacre antiche piante» erano di epoca druidica come quelle di Norma. Poi fui portato a vedere un immenso leone che rosicchiava lo scheletro di un bue nella sua gabbia di ferro. I ruggiti, la notte, non mi fecero dormire.