Dall’anno della sua apparizione, l’ormai lontano 1979, Un amore senza fine di Scott Spencer (riproposto ora da Sellerio in una vecchia traduzione di Francesco Franconeri, pp. 592, euro 15,00) ha dovuto subire il supplizio di due adattamenti cinematografici, uno più orribile dell’altro. L’ultimo, appena dello scorso anno, è spazzatura della peggior specie, un film che non verrà ricordato nemmeno per il pessimo servizio reso al romanzo da cui è stato tratto, considerato che rispetto al suo precedessore è quasi un capolavoro.

Diretto da Franco Zeffirelli nel 1981 e con un cast in teoria tutt’altro che disprezzabile, il primo disastro riuscì a guadagnarsi ben sei nomination ai Razzie Awards, tra cui quelli di peggior attrice protagonista (Brooke Shields), peggior film, peggior sceneggiatura e ovviamente peggiore regista. Non senza ragione, venne liquidato come un «esempio da manuale» in negativo, un compendio di tutto ciò che andrebbe evitato nel portare sul grande schermo un testo letterario. Proprio per questa ragione Jonathan Lethem ha inserito Un amore senza fine in una sua breve lista di libri offuscati dalle loro versioni filmiche, paragonandolo a Philip Roth e Richard Yates, e definendolo «uno dei migliori candidati al titolo di Grande romanzo americano», la storia di un amore ossessivo e adolescenziale dove «Il grande Gatsby incontra il Terrence Malick di La rabbia giovane».

Ovviamente, il «pasticcio» morbosamente zuccheroso diretto da Zeffirelli ha lasciato sgomento lo stesso Spencer, il quale non si è capacitato di come «un romanzo leggermente dissennato come il mio, un libro che parla dell’ineffabile violenza insita nell’ossessione erotica» possa avere ispirato «qualcosa di così tiepido e convenzionale». Va detto che travisare la storia immaginata di Spencer è estremamente facile, come è facile immaginare che fra i due milione di acquirenti del libro (parliamo infatti di un best seller, oltre che di un finalista del National Book Award) in molti saranno rimasti delusi o sconcertati nel constare che il libro mantiene soltanto in parte quel che pare promettere. Perché cos’altro dovrebbe mai promettere un titolo quale Un amore senza fine, se non una storia romantica costellata di momenti d’incanto, languidi struggimenti, baci e chiari di luna?

David Axelrod ama Jade Butterfield. Si innamorano quando entrambi sono ancora ragazzi, studenti di liceo. E fin qui tutto normale, come normale, nella logica del travisamento romantico, è che David trovi impossibile dare un nome a ciò che lui e Jade hanno vissuto. «Esistono parole quali incantesimo, estasi, ma non lo esprimono, sono termini sciocchi. Nessuna parola lo esprime davvero. Non c’era nulla che potessi dire di quel mondo se non di averlo conosciuto, che era stato mio, che lo era tuttora». Nella fiera dei luoghi comuni propri al grande amore pare rientrare anche il sorgere di un ostacolo, segnatamente il fatto che a un certo punto il padre di Jade decide che David debba tenersi a distanza per trenta giorni dalla figlia e dalla loro casa, dove finora il giovane veniva accolto quasi alla stregua di un nuovo figlio o, per meglio dire, come un quasi genero, visto che, da genitori liberal quali sono, i Butterfield hanno concesso a David di dormire in camera della figlia, comprandogli addirittura un letto matrimoniale.

Naturalmente, David non prende bene l’allontanamento e dà fuoco alla casa. Non che voglia uccidere nessuno o procurare chissà quali danni. La sua intenzione è soltanto quella di spaventare la famiglia e poi salvarla, fingendo di arrivare per caso mentre l’incendio divampa. Ed è proprio da qui, a partire da questa pensata sconsiderata e meschina, che la storia perde i tratti decisamente poco zuccherosi dell’ossessione patologica. Ma il vero guaio, per l’economia dei più triti sdilinquimenti sentimentali, è che la morbosa sterzata non giunge nel mezzo del racconto. Piomba subito addosso al lettore, incorporata nell’incipit: «Quando avevo diciassette anni e obbedivo totalmente ai più solleciti comandi del cuore, mi allontanai dai cammini della normalità e nello spazio di un istante rovinai ogni cosa che amavo…».

Il tono lascia intuire dalle primissime righe ciò che il lettore scopre da lì a poco: lo stratagemma dell’incendio ha un esito disastroso, anche perché proprio quella sera la famiglia di Jade ha pensato di provare un’ebbrezza tipica di quell’epoca, l’acido lisergico. Nello stato di alterazione psichedelica, i Butterfield si salvano per miracolo, la casa viene distrutta e David deve fare i conti con la giustizia. Ritenuto psicologicamente irresponsabile, evita il riformatorio, scampa al carcere, ma finisce in un ospedale psichiatrico. Ne uscirà tre anni dopo in libertà vigilata e con un ordine restrittivo: astenersi da qualunque rapporto con l’amata e la sua famiglia, una condizione che per lui è peggio di una pena capitale e pertanto impossibile da rispettare. Si comincia da qui, da un amore all’apparenza troncato, condannato a estinguersi. L’amore non è senza fine perché romanticamente eterno; è senza fine perché sopravvive come follia incurabile, come possibilità perduta, come fantasma.

Distinguere tra amore eterno e amore senza fine non è affatto ozioso in questo caso: se nel sentimento del primo tipo il futuro viene percepito come una perenne estensione del presente, nel secondo ciò che verrà è il luogo in cui vuole far rivivere il passato. «La stessa passione di sempre e nessuna vera possibilità: ecco il genere di follia verso cui sembravo avviarmi». A leggerlo in profondità, il romanzo di Spencer è un racconto sul tempo.

Fin dalle primissime pagine, il lettore non può fare a meno di domandarsi cosa ne sia di David nel momento in cui narra la sua storia. Sa che il protagonista trasgredirà l’ordine restrittivo e per gran parte del romanzo resta in attesa dell’incontro, chiedendosi che esiti avrà. Probabilmente è anche curioso di conoscere qualche dettaglio del passato, qualche ricordo concreto del grande amore perduto. Ma anche questa curiosità resta a lungo delusa. Per centinaia di pagine a dominare la scena non è l’amata; sono il resto dei Butterfield e i genitori di David, famiglie in cui non si sfalda soltanto l’unione matrimoniale ma anche quella col proprio tempo. In particolare, gli Axelrod, marxisti come si poteva esserlo nell’America dell’immediato secondo dopoguerra, «avevano vissuto conviti d’essere d’una generazione in anticipo sul resto del popolo» ma questa loro certezza è andata dissolvendosi, sbiadendo assieme alla fede politica. Va notato che se l’azione del romanzo prende le mosse nel mezzo degli anni sessanta, la sua voce narrante parla invece in un tempo successivo e molto diverso, il decennio dell’Io. Il vento degli anni in cui si è cominciato rifluire nel molle alveo dell’edonismo si avverte distintamente nella voce narcisista di David, una voce che pare non riconoscere altra grammatica se non quella del piacere personale e preferisce il sogno malato di un amore senza fine – «il sogno di non morire mai o viaggiare nel tempo» – a un’illusione ancor più infelice chiamata vita normale.