Una stagione fortunata, quella in corso, per conoscere e amare Michail Bulgakov a teatro. Noto e amatissimo per i suoi romanzi, in particolare Il maestro Margherita e Cuore di cane, non tutti sanno che nel corso della sua travagliata vita, abbandonata dopo le poco piacevoli esperienze belliche la professione di medico, fu al teatro che si dedicò. Mentre nell’Unione Sovietica andava in scena il passaggio da Lenin a Stalin, con tutte le conseguenze che conosciamo, e di cui lo scrittore fu testimone e critico, ovviamente emarginato e perseguitato, finendo destinato a un successo mondiale postumo. Nei teatri moscoviti nel frattempo, per sopravvivere, collaborava in varie forme e a vari livelli, sempre sospettato, perché sempre in odore di eresia verso lo stalinismo.

OGGI sono proprio i romanzi però ad andare in scena, suscitando emozioni e «agnizioni» che lo fanno brillare, oltre che per la scrittura, anche per una sorta di spirito profetico del suo secolo, e anche, in maniera inquietante, del nostro. A inizio stagione era andato in scena una bella versione del Maestro e Margherita, riscritto da Letizia Russo; da qualche giorno è in scena invece Cuore di cane (al Piccolo sala Grassi di via Rovello, fino al 10 marzo), nella riduzione del consulente artistico dello stesso teatro, Stefano Massini. Uno spettacolo bello e compatto, che Giorgio Sangati (assistente di Luca Ronconi nelle sue ultime realizzazioni) ha messo in scena, impeccabile e articolato, anche se il riso, che viene spesso naturale, è ovviamente piuttosto amaro. La storia è quella del cane randagio, emarginato e maltrattato, che ha la ventura/sventura di incrociare la scienza di un luminare della medicina, che decide di sperimentare su di lui le sue conquiste e la fama che gliene deriva, consentendogli di mantenere privilegi di censo e di abitazione nonostante la rivoluzione di ottobre.

LO SCIENZIATO, seguito e assecondato dal suo assistente tirapiedi, decide così di usare il randagio come cavia per un ardito trapianto di ipofisi, che riuscirà a tramutarlo in «umano». L’esperimento, cosiddetto, ha successo, con conseguenze solo in apparenza «incredibili». Tutto in una chiave di fantascienza, che presto ne perde l’aura, per trasformarsi immediatamente in una vivace e acidissima fotografia dei rapporti di classe e di potere. Il cane/uomo (da Pallino diventato Pallinov) è lucidamente memore del trattamento che gli era riservato prima, e ora, appresa presto l’arte della dialettica, reclama e pretende tutto quello che si era visto negato.

PER LA VERITÀ capisce presto anche i criteri e i sotterfugi necessari per difendersi dalla furbizia umana, e fattosi spudorato colpisce senza pietà colpe, sotterfugi, debolezze e ingiustizie. Bulgakov conosceva per esperienza personale come anche le rivendicazioni più giuste possono finire per mascherare fini inconfessabili. E la scienza, furba a sua volta, dopo la vanità per il successo dell’operazione, riterrà ben opportuno tornare sui suoi passi, o meglio sui propri trapianti, restituendo la creatura ribelle alla condizione canina. Lo spettacolo scorre con la velocità di un film, ma con la profondità di un trattato di economia politica e insieme di antropologia. Grazie innanzitutto alla straordinaria prova dei due protagonisti, lo scienziato e l’uomo/cane: Sandro Lombardi e Paolo Pierobon sono attori noti entrambi per la loro bravura, ma qui escono dai loro standard per costruire, vicendevolmente, una nuova sintassi attoriale, fulminante e indiscutibile. Attorno a loro, divertiti e divertenti, «l’assistente» Giovanni Franzoni, Bruna Rossi e Lucia Marinsalta. Dentro la bella scena ferrosa che evoca squarci da Metropolis, i costumi di Gianluca Sbicca attraversano il secolo che di quegli orrori si è ammantato. E lo spettatore può riconoscere ingenuità bacate e grandezze fasulle (e qualche battuta facile fin troppo accattivante) che anche senza il dottor Caligaris ci tocca subire ancora oggi, nei corsi e ricorsi e rincorse della politica.