White Cube è un termine universalmente utilizzato per indicare gli spazi espositivi e le gallerie d’arte in occidente. È anche il titolo che Renzo Martens ha dato al suo film, la particolarità però è che il Cubo bianco di cui si occupa è stato costruito in una piantagione di olio di palma a Lusanga, a circa 650km da Kinshasa, in Congo.

IL LUOGO è significativo perché è lì che in epoca coloniale, all’inizio del Novecento William Lever ottenne gratuitamente dal governo belga l’accesso alle piantagioni di olio di palma per stabilirvi le proprie fabbriche. Piantagioni che fanno capo alla Unilever, multinazionale olandese-britannica alimentare che sponsorizza e sostiene con orgoglio musei e spazi espositivi occidentali come il Van Abbemuseum di Eindhoven e la Tate Modern, per ricordarne solo alcuni.

 

Martens da anni indaga i legami esistenti tra usurpazione coloniale, sfruttamento e sistema dell’arte internazionale. Già nel 2008 con Episode III: Enjoy Poverty si era avventurato nei territori dell’Institution Critique, ma invece di teorizzarli e/o proclamarli nei recinti protetti degli atenei universitari, delle gallerie o dei musei, aveva operato sul campo. Era andato in Congo, proponendo a giovani africani di servirsi del mezzo fotografico per documentare la propria condizione di povertà e sofferenza, invece di permettere a fotografi internazionali di ritrarli e di trarre profitto dalle loro immagini.

 

Episode III: Enjoy Poverty dimostrò però che non era possibile raggiungere quei risultati, ossia denunciare lo sfruttamento e la strumentalizzazione subita dagli africani per mezzo degli organi di stampa occidentali. È stato comunque un dispositivo visuale che ha permesso di riflettere sul ruolo delle immagini nelle zone di conflitto e sollevare questioni sul giornalismo, i media, e le possibili forme di riscatto economico per chi è sfruttato.
Con White Cube Martens ha approfondito tali istanze. È tornato in Congo e grazie ad alcuni partner in crime significativi è riuscito ad attuare processi di cambiamento reali per migliorare le condizioni di vita della popolazione di Lusanga, servendosi dei privilegi esistenti nel mondo dell’arte. Il processo inizia nel 2012, quando Martens e l’Institute for Human Activities organizzano una serie di incontri con intellettuali come Richard Florida, Eyal Weizman, TJ Demos, Marcus Steinweg, Nina Möntmann per indagare il sistema dell’arte, in quanto reale attivatore e agente di cambiamento, in un’area territoriale specifica, l’ex piantagione Unilever in Congo. Tra i partecipanti vi era Rene Ngongo di Greenpeace, Congo, che alcuni anni dopo fonda con un gruppo di lavoratori dell’ex piantagione la cooperativa Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise (CATPC); lo scopo è creare una microeconomia capace di sostenere i vari membri con la produzione e la vendita di opere d’arte. Visto che i lavoratori delle piantagioni avevano contribuito a finanziare il mondo dell’arte occidentale, l’arte ora avrebbe potuto aiutarli a investire capitali economici e dare visibilità a Lusanga. Dopo decenni passati a fornire lavoro sfruttato alle multinazionali, i membri della cooperativa erano consapevoli che il processo doveva essere invertito, e che fosse necessario utilizzare il proprio territorio per generare un nuovo sistema economico con pratiche più socialmente inclusive ed ecologiche.

ALL’INIZIO del 2017 i membri della cooperativa crearono sculture servendosi del fango del fiume. Le opere vennero poi scansionate in 3D e riprodotte in cacao e olio di palma ad Amsterdam (il porto di cacao più grande del mondo), prima di essere esposte nelle principali gallerie, e musei internazionali. Le vendite hanno permesso loro di acquistare le terre dell’ex piantagione Uniliver.
NON MOLTO tempo dopo è stato creato il Lusanga International Research Center for Art and Economic Inequality (LIRCAEI), come iniziativa congiunta tra l’Institute for Human Activities e CATPC. Insieme hanno incaricato lo studio di architettura olandese OMA (Office for Metropolitan Architecture co-fondato da Rem Koolhaas) di progettare e costruire il loro «White Cube»: una struttura in bambù bianco che accoglie le attività di LIRCAEI.

«L’IDEA del cubo bianco come simbolo modernista del dominio coloniale e rappresentazione dell’estetica occidentale permette a LIRCAEI di intervenire nel sistema delle piantagioni con un approccio postcoloniale, p. Abbiamo chiamato il nostro progetto Programma di gentrificazione inversa, per permettere a CATPC di acquistare la terra e trasformarla con piantagioni biologiche e pratiche egualitarie», afferma Martens. E aggiunge «Ci sono molte attività che abbiamo in programma, ma ciò che conta davvero non è ciò che accade all’interno del white cube, ma ciò che viene attivato in modo comunitario al di fuori di esso».