Nella sua ancora imprescindibile introduzione a Ulysses di Joyce, Declan Kiberd spiega che a sottendere l’arte di Joyce è la convinzione secondo cui la paternità sia soltanto una finzione legale. Di qui la necessità, per i figli, di ribellarsi, prima o poi. È questa una convinzione che si concretizza anche nel fantasmagorico libro successivo di Joyce, il Finnegans Wake, in cui «ognuno è qualcun altro» com’è stato detto, e in cui i figli, i gemelli quasi siamesi («soamheis», è il conio che inventa Joyce al posto di «siamese») danno la caccia inconsciamente al padre, fino a rimpiazzarlo nei sogni.

LA PATERNITÀ come finzione legale è certamente un paradosso, eppure consente di inquadrare bene il rapporto padri-figli e come questo sia, nella letteratura e nel teatro irlandesi, assolutamente cruciale. Quella d’Irlanda è per molti versi, infatti, una letteratura di padri. Di padri perduti, di padri presenti, di padri assenti o mitologici e scomparsi, e quindi, di padri sempre da reinventare.
Nella fiction irlandese si tratta di un’ossessione onnipresente. Tutti riscrivono tutti: Joyce riscrive Omero, Yeats e Marina Carr riscrivono Sofocle. E lo stesso fa, ma in maniera assai differente, Caoilinn Hughes, in uno dei libri più interessanti degli ultimi anni, Le conseguenze, un romanzo che esce ora nella bella traduzione di Anna Mioni rivista da Federica Aceto (Pessime idee, pp. 254, euro 18).
È un libro con al centro la morte di un padre: una morte per mano dei figli, che agiscono però guidati da compassione e comprensione del dramma che lui vive. Un dramma coincidente con le illusioni suscitate dall’afflusso di ricchezza nel periodo che conosciamo col nome di Celtic Tiger: un’era sgonfiatasi con un brusco ritorno alla realtà nella crisi del 2008.
Le preoccupazioni etiche legate al diritto alla morte si intrecciano a un dipinto dell’Irlanda rurale (il romanzo è ambientato nella contea di Roscommon) che nulla concede al sentimentalismo, anzi. La narrazione, sempre in bilico sul filo sottile che lega ironia e tragedia, non cede mai al melodramma, come capita sempre più spesso nella narrativa consolatoria di altri colleghi della Hughes.

ALCUNE SCENE rimangono indelebili proprio per questo equilibrio difficilissimo da raggiungere. Il momento della morte, prima di tutto, e poi il fermo da parte della polizia e il processo; ma anche, all’inizio, la vendetta compiuta dai ragazzi nei confronti del personaggio ritenuto la causa della rovina del padre. Una rovina che da materiale ed economica (investimenti sbandati e condotti alla cieca che lo costringeranno poi a spezzarsi la schiena sui campi per ripianare i debiti) si fa presto fisica, col sopraggiungere di un male incurabile.
In questo crudo e beffardo inferno famigliare, una figura spicca per la sua resilienza, quella della madre, una ex suora che non è tanto remissiva quanto resistente: soffre in silenzio, nell’auspicio tacito che la scelta del marito e dei figli non sia sbagliata. Sono i figli, infatti, ad assecondare il padre nel suo desiderio, e nel farlo cercano anche un qualche riscatto, una sorta di vendetta sociale che si configura come una lotta contro il fato.

IL BEL ROMANZO di Hughes è, tra le tante cose, anche una storia dell’Irlanda recente, non solo nei termini del passaggio dalla depressione economica a un boom inaspettato in cui tutti credevano di poter fare tutto, salvo poi scoprirsi parte di una grande illusione (un periodo in cui agricoltori e impiegati divennero senza colpo ferire costruttori, per dirne soltanto una). È anche una storia d’Irlanda perché ci parla dell’enorme divario tra la rural Ireland, le cui ombre e credenze avevano forgiato la coscienza di una nazione, e il modo in cui si presenta oggi il paese, ai turisti ad esempio, o alle multinazionali: una terra di conquista in cui, alla vecchia cultura dei pub accoglienti e amichevoli, si sostituisce gradualmente quella della rincorsa rancorosa di un progresso moderno e futuribile, sempre più feroce e spietato.

È UN’IRLANDA, quella di oggi, in cui infrastrutture aeroportuali possenti e le recenti autostrade che collegano le poche grandi città, attraversano terre di nessuno: vuote o meglio svuotate, e dunque vacue.
È questo che denuncia tra l’altro Hughes, attraverso il mezzo di una peculiare critica rivolta a un sentire bigotto e a leggi sociali che non rispettano quelle naturali. Il tutto accade in una singolare coincidenza di pubblico e privato, di senso della comunità – con le relative ambizioni di una società nuova – e le ripercussioni che il loro perseguimento avrà per il singolo: un individuo colpito non soltanto dalla vergogna ma anche dal decadimento fisico, e la cui unica ancora di salvezza sembra essere una morte dignitosa e compassionevole. Una morte in famiglia, che doveva restare privata, ma che invece diviene affare pubblico, dibattito pubblico, sporcandosi di conseguenza di tutte le illazioni e le accuse che una comunità dimentica del proprio passato, sa sempre lanciare.
Il libro di Caoilinn Hughes è al contempo una denuncia sociale e un ritratto sferzante del modesto presente: un ritratto al contempo ironico e disperante. È la fotografia di una nazione in divenire che fatica a lasciarsi indietro il retaggio di una spiritualità bigotta da un lato, e dall’altro quello di apparati statali sempre pronti a condannare qualunque compassionevole afflato libertario.