Un ritorno. È questo il movimento intorno al quale Mario Martone costruisce il suo nuovo film, unico titolo italiano in concorso – e in sala da oggi – rivolgendosi a Ermanno Rea e al suo ultimo romanzo di cui il film conserva il titolo, Nostalgia (Feltrinelli) anch’esso un ritorno dello scrittore napoletano nella propria città, dopo la scelta di vivere a Roma. Napoli è personaggio come coloro che la abitano, la vivono, l’attraversano, immersi in quell’atmosfera dove «tutto è sempre uguale» – come dice il protagonista, Felice (Pierfrancesco Favino) tornato lì dopo una vita intera, quarant’anni passati all’estero, in Egitto, dove ha una moglie amata e un agio economico. Delle sue origini ha perduto tutto, persino la lingua, ha uno strano accento «straniero» senza però una vera identità che gli altri, i napoletani, fanno fatica a capire.

QUELLE STRADE, gli odori, i sapori dei cibi, i rumori dei motorini con gli scappamenti aperti che si inerpicano nei vicoli si sovrappongono a immagini lontane, al se stesso ragazzo che correva fiero sulla Gilera rossa. Si sentivano invincibili lui e l’amico di sempre, Oreste, più determinato nella via criminale da percorrere, che tutti temevano già allora, e che oggi chiamano ‘O Malommo, temutissimo boss della Sanità e nemico di quel prete (Francesco Di Leo) che combatte la camorra e il «vuoto» delle istituzioni. Che cerca allora Felice? Cosa esprime quella sua «nostalgia» che più di un rimpianto sembra nutrirsi del bisogno di riavvolgere i nastri del tempo nell’impossibile tentativo di colmare dei vuoti?

C’è la madre intanto – che è povera, anziana, malata, confinata in un «basso», gli fa male pensare di averla abbandonata alle tempeste della vita: di lei si vuol prendere cura almeno ora in questo ultimo suo scorcio di tempo, le compra la biancheria nuova, la lava – una scena intensa, di umano e sacro – le cerca un’altra casa più luminosa col giardino e la luce del sole. Poi c’è appunto l”ex-amico, potente e temuto (Tommaso Ragno) che nessuno sa dove si nasconde, col quale condivide un segreto pericoloso che il prete raccoglie in confessione, dopo la rabbia lo protegge e prova a fargli riannodare le relazioni col quartiere. Felice divide i suoi giorni tra le sue scoperte e le ore con la madre, la donna sembra serena, poi muore.

POTREBBE ANDARSENE a quel punto Felice invece rimane, i suoi passi sembrano cercare qualcosa che si è perduto, la giovinezza o forse le ragioni sepolte di quella cesura così violenta che gli ha impedito di guardarsi indietro. Una ostinazione che appare un mistero e che potrebbe anche costargli la vita. Ma le questioni «personali», anche le più intime, nel cinema di Martone aprono sempre altre piste, interrogano un presente e le sue ragioni senza paura di guardare nella storia e con la capacità di confrontarsi con la propria epoca – lasciandone scorrere i segni e i conflitti in filigrane mai sovrapposte. Quei «vuoti» ai quali guardano i suoi personaggi sono anche le zone in cui si muove il regista – nella scrittura che lo vede di nuovo insieme a Ippolita Di Majo – e nelle scelte di una messinscena nella quale porta le sue esperienze, l’opera, il melodramma, mescolandoli alle immagini. E a differenza di un film come era L’amore molesto – anch’esso un ritorno in una Napoli disegnata da una memoria emozionale – si «chiude» nel quartiere lontano dal mare, il cui orizzonte finisce in se stesso per renderlo un mondo. È lì che tutto accade, è lì che si snoda un tempo che appare immoto nel suo ripetersi, tra quelle case filmate nei loro misteri, nella loro impossibile bellezza, negli interni in cui risuonano le poetiche di Ortese o di Ramondino.

E NELLE VISCERE segrete dei morti, un universo «di sotto» quasi specchio o controcampo del «sopra», un altro labirinto dell’erranza in cui perdersi o dove ricominciare. Cosa racchiude allora questa nostalgia? Una storia d’amicizia e la fuga di un tradimento con i due (non) eroi che si cercano, si sfidano quasi come in un western, alla ricerca di un incontro difficile e di una impossibile riconciliazione. E anche il racconto di un cambiamento che può essere solo per uno, all’altro non è dato, è soltanto il personaggio di Felice che può forse ritrovarsi, ritrovare il quartiere e la sua lingua spostando l’asse della sua presenza in un mondo di resilienza che gli è sempre stato lontano, quello del prete e dei ragazzi che lavorano nel centro sociale, in cui si inventa una «comunità» in un momento storico e civile che ha perso la politica e il senso delle grandi battaglie collettive.
Rispetto a altri film del regista l’equilibrio fra le possibilità appare qui più soffocato, come se la visione di un cambiamento si fosse fatta stretta fino quasi essere irrealizzabile. Ma anche in questo c’è il nostro tempo, fatto di tracce e di tentativi, di fatica invisibile dei tanti che accettano dei rischi e si mettono in gioco, e di silenzi fin troppo diffusi. Figure archetipiche di una tradizione non solo letteraria, i due protagonisti li portano in sé, nella loro sfida che li condanna, e che dichiara una realtà nella quale il «riscatto» rimane in tentativo, forse impossibile.