Sono 152 i cittadini e le cittadine afghane arrivati ieri mattina all’aeroporto di Fiumicino a Roma e provenienti da Islamabad, capitale del Pakistan. Al terminal 5, sono le 12 circa quando un gruppetto di bambini e bambine apre il piccolo corteo dei nuovi arrivati, scandendo «Viva l’Italia» a favore di telecamere. L’Italia che li accoglie è quella della rete istituita con la firma, il 4 novembre del 2021, di un protocollo tra i ministeri degli Interni e degli Esteri e la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, l’Arci, la Caritas italiana e la Conferenza episcopale italiana (Cei). L’obiettivo è far arrivare nel nostro Paese, grazie al sostegno dell’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, e dell’Oim, l’organizzazione internazionale delle migrazioni, 1.200 richiedenti asilo afghani. Non dall’Afghanistan, dove i corridoi umanitari sono impossibili, a causa dell’ostilità delle autorità di fatto, i Talebani, ma dai Paesi confinanti. Iran e Pakistan, quelli che, nel corso dei decenni, più hanno accolto – e troppo spesso respinto – gli afghani che hanno scelto le migrazioni come strumento di distribuzione dei rischi e delle opportunità di vita. Con l’Iran che ribolle di contestazioni al regime repressivo, il Pakistan rimane per ora la via più praticabile, ma non facile.

Alla conferenza stampa partecipano i rappresentanti delle organizzazioni che – anche grazie a una rete di solidarietà che coinvolge singoli cittadini e comunità locali – hanno sottoscritto il protocollo. Monsignor Giuseppe Baturi, il segretario generale della Cei, sottolinea il termine “corridoio”, inteso come «ciò che unisce le stanze e permette di incontrarsi e di prendersi cura degli altri». Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, saluta gli afghani dicendo loro che «è tutta l’Italia che fa festa per il vostro arrivo». Italia che dovrebbe farsi «capofila in Europa dei corridoi umanitari, un progetto non più sperimentale, ma consolidato». Libero Ciuffreda, membro del Consiglio della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, sottolinea come i corridoi dimostrino «che è possibile quel che altri vorrebbero far apparire impossibile». L’arrivo sicuro, per vie legali, di chi è più vulnerabile. Parole simili a quelle di Filippo Miraglia, responsabile nazionale immigrazione dell’Arci, per il quale «c’è tanta gente che vi aspettava». Non viene dimenticato chi rende concretamente possibile i corridoi umanitari: tanti operatori e operatrici che lavorano per settimane e mesi, tra l’Italia e il Pakistan, per individuare le persone più vulnerabili, incontrarle, chiedere, verificare. E spiegare ciò che li attende. Sono in tanti e tante. Molti con le pettorine delle rispettive associazioni.

Tra loro c’è Daniele Albanese, della Caritas. È appena tornato da Islamabad, volando con i 152 rifugiati afghani. Spiega che «c’è tanto lavoro dietro. La raccolta dei documenti, i lasciapassare per i bambini piccoli, spesso privi di documenti, gli incontri con i rappresentanti delle istituzioni locali, i rapporti con la società civile, qui e lì». E il lavoro di formazione: «è un lavoro duplice, pre-partenza per gli afghani, pre-arrivo per le comunità che li accoglieranno». Agli afghani viene spiegato cosa aspettarsi, «diritti e doveri, elementi della cultura italiana. Ai membri delle comunità di accoglienza viene spiegata la cultura afghana, le differenze, cosa fare e cosa no». È un lavoro meticoloso, di progressiva costruzione di rapporti e relazioni. In divenire. «Per noi l’arrivo a Fiumicino non è mai un punto di arrivo, ma di inizio del nuovo percorso che dovremo costruire insieme agli afghani e alle afghane». Per loro, si apre un nuovo capitolo di vita.