Alla Galleria d’arte moderna e contemporanea di Bergamo si aprirà il 7 marzo la mostra «Io sono» (visitabile fino al 19 maggio) la prima grande retrospettiva che un’istituzione museale italiana dedica a Birgit Jürgerssen (1949 -2003), a cura di Natascha Burger e Nicole Fritz. L’artista ha attinto ai linguaggi del Surrealismo per trattare sessualità, canoni di bellezza e rapporti di genere con un linguaggio ironico. Articolata in sei sezioni, la personale offre un percorso con 150 lavori realizzati in quarant’anni di ricerca, tra disegni, collage, sculture, fotografie, rayogrammi, gouache e cianotipie.

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Con sguardo analitico-ironico Birgit Jürgenssen ha indagato le diverse funzioni e usi sociali delle fotografie. In una delle sue prime composizioni fotografiche, allestita in forma di trittico nel 1972, l’artista si mostra, con espressione seria del volto, frontalmente e di profilo, in modo analogo alle foto segnaletiche realizzate a partire dal XIX secolo. Citando questo tipo di immagini, Birgit Jürgenssen mette a nudo strutture funzionali e simboliche.
In quanto strumento di potere, ancora oggi le fotografie servono come documento di prova e informazione. In esse si manifesta una visione burocratica del mondo, in cui le foto stesse hanno valore proprio perché forniscono informazioni (…). Qui, la fotografia serve a Birgit Jürgenssen «come mezzo concreto e al tempo stesso concettuale per riconsiderare criticamente le prospettive ormai verificate e radicate».

L’artista riprende, quindi, l’estetica delle foto segnaletiche associandola a una pungente ironia per ritrarre se stessa con indosso il suo Grembiule per casalinghe. Così facendo, Jürgenssen mette in parodia la tradizionale suddivisione dei ruoli, fossilizzata nelle strutture sociali patriarcali. In quanto artista femminista «nel senso della presa di coscienza, dell’analisi e decostruzione di teorie e sistemi di rappresentazioni dominanti» Jürgenssen visualizza e decostruisce il «segno-donna».
Questa fotografia può essere letta come commento visivo all’opera dell’autrice americana Betty Friedan, che nel 1963 smascherò la volontaria adesione al ruolo di casalinga come propaganda mediatica di una certa immagine femminile. La risposta artistica di Birgit Jürgenssen a questa misogina immagine sociale è la foto in bianco e nero («Voglio uscire di qui!»). L’artista mette in scena se stessa, ben vestita, con tanto di colletto con rouche e spilla. Tiene mani e guance premute su un vetro, su cui è anche esplicitamente scritto lo stesso desiderio di uscire espresso dal titolo dell’opera. In modo analogo agli Untitled Film Stills di Cindy Sherman, le fotografie performative di Birgit Jürgenssen hanno strutture narrative. Esse mirano volutamente alla «produzione mentale di immagini», che l’artista aggiunge e integra alla nostra memoria visiva di figure femminili tratte dai film. Nel suo testo Clownerie statt Maskerade, Edith Futscher elabora la figura della «clownerie» come forma specifica dell’umorismo visivo di Jürgenssen, che con le sue maschere – proprio come Sherman – danza come «una giullare sul palcoscenico del patriarcato».

Al pari di Cindy Sherman, e soprattutto dell’artista surrealista Claude Cahun, pioniera della fotografia performativa – come dimostrato qui da Me as Cahun Holding a Mask of My Face di Gillian Wearing – Birgit Jürgenssen ha sempre messo in scena il proprio corpo, riprendendolo tramite autoscatto. Con i loro ruoli e travestimenti raffinati, tutte e tre le artiste sfuggono agli stereotipi sociali. Tutte utilizzano un linguaggio fotografico volutamente semplice. La presenza dell’artista nella propria opera rappresenta il «paradosso di un ritratto senza autoritratto, senza autorappresentazione». Il corpo raffigurato è in tal senso canale di trasmissione o superficie di proiezione di idee e non è rappresentativo della personalità dell’artista. L’immagine mostra l’artista, ma non si riferisce all’artista.
«Danza macabra con ragazza» è un’ampia serie di tableaux vivants in bianco e nero, esemplare del suo approccio sperimentale-concettuale. La serie mostra la peculiare gamma tematica di Birgit Jürgenssen che indaga approfonditamente gli spazi dell’esperienza esistenziale. Come i primi attori-attrici nel teatro totemico, l’artista, dipinta di bianco e con il corpo coperto di bende e garze, assume il ruolo di una morta. Con gli accessori di una bambola-feticcio realizzata dall’artista stessa e una «maschera mortuaria», che ha appena tolto dalla faccia, essa intraprende simbolicamente, davanti a un telo bianco, un dialogo con la morte. L’artista guarda in volto la propria morte, nel senso letterale del termine.

Un evento impensabile, possibile soltanto nel gioco della finzione. La messa in scena performativa finalizzata all’immagine fotografica viene consapevolmente dichiarata in quanto tale, nel momento in cui resta visibile e riconoscibile il cavo dell’autoscatto. Il fatto che Birgit Jürgenssen abbia utilizzato la fotografia per la rappresentazione di una danza macabra appare rilevante in un duplice senso, se consideriamo che la morte sembra essere parte costitutiva dello stesso mezzo fotografico.

* Estratto dal testo in catalogo, edito da Prestel