Dubito che Luisa Mangoni avrebbe gradito essere definita una storica inattuale. Eppure è così che, durante il mese che è ormai trascorso dalla sua scomparsa, la sua figura e il suo lavoro si avvicinano ad essere pensate da chi ne ha seguito l’attività, dalle prime ricerche sulle riviste fra età liberale e fascismo (L’interventismo della cultura, Laterza 1974; «Primato» 1940-43, Antologia, De Donato, 1977), alla sconfinata ricostruzione del primo periodo di Einaudi (Pensare i libri, Bollati Boringhieri, 1999), alla storia della Laterza, cui stava lavorando nonostante la malattia fosse ormai avanzata.

Dubito che avrebbe gradito, perché il suo modo di operare mai suggeriva un distacco dal presente, né tantomeno vi si scorgevano tracce di deprecatio temporum o di ammonimenti normativi, che spesso traspaiono invece dai testi di molti degli storici nostri contemporanei, nonostante il suo dissenso rispetto all’organizzazione accademica degli studi sia stato così profondo da farle abbandonare l’Università con grande anticipo rispetto all’età della pensione, a metà degli anni Novanta. E tuttavia molto della sua opera si colloca su un piano diverso e autonomo rispetto allo stato attuale di gran parte degli studi storici nel nostro paese: anche per questo è così grande la perdita per la storia della cultura.

Una storia della cultura, la sua, sideralmente lontana dalla storia culturale che oggi affolla gli scaffali delle librerie, intensamente creativa per la libertà intellettuale con cui avvicinava il suo oggetto, intrecciando biografie intellettuali, istituzioni, testi sullo sfondo di momenti critici di passaggio nella vita sociale e politica, e profondamente tuttavia innervata in una ininterrotta tradizione di studi, fondata direttamente sulla ricerca e costruita dalla riflessione sui documenti: come nella magistrale ricostruzione dell’itinerario intellettuale di Delio Cantimori attraverso il fascismo, presentata nel saggio introduttivo alla raccolta dei suoi scritti (Politica e storia contemporanea: scritti, 1927-1942, Einaudi, 1991).

Fertili divaricazioni

Le domande su cui si impostano le sue ricerche non nascono mai dalla trasposizione di una categoria antropologica, o di una qualunque scienza sociale, agli studi storici, ma sono generate dall’oggetto stesso, che emerge nella sua precisa singolarità, anche quando il suo perimetro viene definito dall’occhio dell’autrice: come avviene nello studio sulla crisi culturale in cui affondano le radici dell’età dei nazionalismi, indagata nella circolazione di idee all’interno dei circuiti intellettuali fra Italia e Francia (Una crisi fine secolo, Einaudi, 1985).

Dubito, peraltro, che Mangoni avrebbe apprezzato una lettura dicotomica, che contrapponesse il suo lavoro ad un orizzonte avverso, cui qui siamo ricorsi nel discorso. Una lezione che si può trarre anche solo dalla lettura, talvolta ardua, dei suoi testi, è il rispetto filologico per le fonti, insieme alla continua ricerca di intrecci, di suggestioni e risposte, di terreni comuni e successive divaricazioni, che vengono ricostruiti intessendo riferimenti alla lettera dei documenti, esatti fino all’acribia, con elementi di contesto, attraverso associazioni mai immediate e «ricevute», ma frutto sempre del suo intervento creativo, che rilevava le assonanze così come i silenzi e i non detti, come nello scavo nella biografia intellettuale di don Giuseppe De Luca, dove gli elementi di contesto, come il riassetto degli equilibri all’interno del mondo cattolico successivo alla stipula dei Patti Lateranensi, venivano presupposti come innesco di un percorso analitico in grado di dare ragione delle azioni di politica culturale del prete lucano, nei suoi rapporti con i circuiti intellettuali e politici del tempo (In partibus infidelium, Einaudi, 1989).

Le domande ricorrenti

Non che il suo lavoro, così attento alla precisa individuazione dei suoi oggetti, mancasse di una ispirazione unitaria, che Albertina Vittoria ha accuratamente richiamato (sull’«Unità» del 5 gennaio 2014), situandola nel particolare rapporto fra politica e cultura come tratto distintivo della storia italiana novecentesca. Attraverso l’arco della sua opera si possono tuttavia scorgere alcune domande ricorrenti e sotterranee – per richiamare una definizione cui Mangoni ha spesso fatto ricorso – che guidavano la definizione dei percorsi di ricerca, non tutti riuniti in volume, ma anche disseminati in articoli e saggi, spesso pubblicati su «Studi Storici», di cui era parte integrante, come della Fondazione Istituto Gramsci. Il tema delle forme statuali rispetto alle esigenze di controllo del potere da parte dei vari settori delle classi dirigenti nei momenti di crisi e trasformazione sociale, che è formalizzato nei saggi più risalenti su cesarismo e bonapartismo e sulla riflessione politica di Antonio Gramsci, innerva anche le ricerche sulle riviste e l’organizzazione degli intellettuali, dall’Interventismo della cultura, a «Primato», al saggio sul Fascismo nel primo volume della Letteratura italiana curata da Asor Rosa (Il letterato e le istituzioni Einaudi, 1982), e riemerge in forma specifica con i saggi su Vittorio Emanuele Orlando e la cultura giuridica fra età liberale e fascismo. I

l tema della modernità novecentesca, e dei ripensamenti degli strumenti culturali con cui affrontarla cui vengono obbligati i gruppi intellettuali di diversa collocazione politica, attraversa in modo particolare In partibus infidelium e Una crisi fine secolo, ma sottende ai contributi sui gruppi intellettuali tra età liberale, fascismo e periodo repubblicano, apparsi nei volumi della Storia dell’Italia Repubblicana (Einaudi) o della Storia d’Italia (Laterza). E infine il tema generazionale, che appartiene in primo luogo alla riflessione sulle modalità di costruzione di una presa egemonica sulla società da parte del fascismo attraverso la formazione delle nuove generazioni, si riflette nei lavori più recenti, in particolare centrati sul complesso momento di passaggio tra fascismo e antifascismo di particolari figure intellettuali, raccolti nell’ultimo volume pubblicato, Civiltà della crisi (Viella, 2013).

Coerente percorso

Luisa Mangoni era una storica-storica, senza aggettivi. Molto credo ci sia da lavorare sull’eredità che ha lasciato. Ma ora, ricordandone la lezione, con insistenza si presenta alla memoria una sua osservazione al carteggio di Leone Ginzburg, dove rifletteva sulla sua concezione di «intransigenza» citando un passaggio di un suo scritto del 1933 che commentava l’obbligatorietà dell’iscrizione al Partito fascista, Viatico ai nuovi fascisti: «Salvo il cinismo di certi intellettuali, tutti si vergognano ancora di questa irreggimentazione forzata. Non staremo ad avvilirli di più. Bisogna aver trascorso gli ultimi anni in Italia o in istretto contatto con coloro che vi sono rimasti, per non disgiungere più la carità (che non esclude l’intransigenza) dai giudizi sulla morale collettiva (… ) Noi, che abbiamo scelto vie più difficili, e cerchiamo di lavorare per tutti, abbiamo il diritto di manifestare l’immensa pietà per loro, che ci ha presi, e il dovere di soccorrerli, per quanto possiamo. Non permetteremo che si avviliscano di più, che da un primo compromesso accettato a malincuore siano tratti a desiderarne e promuoverne altri, per oscurare il ricordo di quello». E Mangoni chiosava: «Il percorso è netto e coerente, l’umana pietà non consente in alcun modo di travisare il giudizio morale e storico. Queste lettere ce lo ricordano».