Il compimento dei cinquant’anni del Gruppo 63, da noi che vi abbiamo partecipato, più che una occasione di commemorazione (tanto meno di nostalgia e compiacimento) forse meglio può essere speso come pretesto per incoraggiare il lettore a superare le difficoltà che ancora incontra nel raffigurarsi il Gruppo e comprenderne la direzione e il senso.

Cominciamo a fornire un quadro storico anagrafico, il nostro «chi eravamo». Eravamo un gruppo di giovani intorno ai trent’anni (da Arbasino a Colombo, da Sanguineti a Eco), qualcuno con qualche anno in più come Giuliani e Manganelli, o con qualche anno di meno come Barilli, Balestrini e Porta. Tutti poeti o narratori – se volete prosatori –, io e Barilli i critici del Gruppo. Gruppo non perché ci sentissimo legati da un’idea unica su come leggere un romanzo (su quali fossero le modalità che lo facevano essere qualcosa di più di una semplice occasione di buona distrazione) o come fare letteratura (eravamo di idee anche profondamente diverse); il nome ci venne per suggerimento dal Gruppo 47, nato in Germania dopo la guerra con al centro Günter Grass (la cui caratteristica non era allevare idee comuni ma mettere a giudizio quello che ciascuno stava scrivendo leggendolo ad altri con cui confrontarsi).

Eravamo diversi ma avevamo le stesse impazienze: non ci piaceva il neorealismo piatto e predicatorio, di origine ottocentesco-naturalista; non ci piaceva l’impegno allora obbligatorio; non ci piaceva il crepuscolarismo in poesia, dolente di umili lacrime; non ci piaceva il paese in cui eravamo diventati adulti; non ci piaceva l’emarginazione del 30% per cento del paese escluso dalle opportunità di cui beneficiava l’altro 70%. E tutto questo non perché soffrissimo di qualche esclusione, essendo tutti già ben sistemati nell’università, nelle case editrici, nei giornali, alla Rai. Dunque niente rivendicazioni personali. Né obbedienze fideistiche: votavamo tutti per i partiti di sinistra (il Pci in testa), ma avevamo in orrore le loro idee sull’arte, cioè la pretesa che l’arte dovesse servire alla politica o, in forma più composta, che l’arte servisse a cambiare il mondo. Il romanzo che più deridevamo era Metello di Pratolini.

Queste molte cose in comune si riassumevano nel rifiuto delle regole cui fino allora la letteratura aveva fatto riferimento (letteratura come rappresentazione, specchio della realtà di cui non poteva che riflettere l’immagine consuetudinaria e già nota), nello sganciamento da ogni prescrizione, e nella fermezza con cui sperimentare nuove ipotesi di scrittura lontane dal naturalismo. Aiutati dalla lettura dei grandi scrittori europei e americani, in Italia ancora pressoché sconosciuti (Proust, Joyce, Musil, Canetti, Broch, Faulkner, Eliot, Pound insieme agli italiani Pirandello e Svevo cui io aggiungevo tra i viventi il solo Carlo Emilio Gadda), ma anche dalla conoscenza di filosofi e pensatori sempre non di casa nostra, che sin dagli anni Trenta avevano criticamente rovesciato il modo di pensare la letteratura inaugurando nuove ipotesi e prospettive (Adorno e i francofortesi, Husserl, Benjamin, Barthes).

Ancora un’informazione: al tempo del convegno inaugurativo di Palermo (ottobre ’63) eravamo tutti pienamente operativi. Umberto Eco aveva già pubblicato nel ’62 Opera aperta, Arbasino nel marzo del ’63 Fratelli d’Italia, Sanguineti Laborintus – forse il suo libro più importante – addirittura nel ’56, Pagliarani La ragazza Carla nel ’60, I Novissimi erano usciti nel ’61 e «il verri» di Luciano Anceschi, dove tutti noi scrivevamo, era stato fondato nel ’56. Dunque non eravamo dei novizi del pensiero e della letteratura: il Gruppo ci raccoglieva in una fase già matura del nostro sviluppo (valorizzando le cose che avevamo in comune in una nuova attiva identità).

A questo proposito (e anche non a questo proposito), detto con più precisione, ciò che ci accomunava e distingueva era un’assoluta attenzione allo strumento linguaggio. Che, per ritrovare la sua efficacia, doveva, come ci aveva insegnato l’avanguardia storica, prendere le distanze dalla leggibilità del discorso logico. È corretto allora dire che gli scrittori del Gruppo 63 scrivevano «difficile»? Più giusto dire che adoperavano un linguaggio diverso da quello della comunicazione quotidiana: perché il rapporto tra parole e cose si era intanto interrotto (a cominciare da Baudelaire e poi più drammaticamente con Mallarmé), e lo scrittore che vuole parlare delle «cose» (della realtà) deve prenderne atto e cercare di trovare un linguaggio più libero (rinnovato grammaticalmente e sintatticamente) e più flessibile, che gli consenta di riappropriarsi dell’oggetto smarrito. Le «cose» (la realtà) non sono quelle che incontriamo la mattina uscendo di casa, si nascondono dietro le apparenze, lì è il loro essere e lì bisogna cercarle. Né le troveremo recuperando gli aneddoti in cui si mostrano (e appaiono), ma disseppellendo le loro forze interne, la loro energia creatrice, la loro «impetuosità». Scopo di un’opera d’arte, si sa, non è intrattenere o ammonire, ma comunicare emozioni. Leopardi nello Zibaldone scrive che una poesia è bella se accresce la nostra vitalità, conferendoci uno stato di allegria mentale. E l’introduzione di Giuliani ai Novissimi, riprendendo l’intuizione leopardiana, recita: «la poesia non è quel che dice ma quel che fa». Se è così, non troveremo difficoltà ad apprezzare per esempio una testa di Picasso (caricando di un senso più proprio il concetto di leggibilità in un’opera d’arte), anche se è senza bocca, ha un occhio solo e tre nasi; o il dripping di Pollock che rovesciava la tela sul pavimento e vi lavorava chinato sopra.

E qui tocchiamo un altro aspetto del linguaggio degli artisti di avanguardia cui gli scrittori del Gruppo 63 non erano estranei, cioè la gestualità (vi ricordate lo straordinario Mysteries di Julian Beck, per intero orchestrato sul gioco dei corpi degli attori, con la collaborazione del pubblico in sala?) altrimenti detta linguaggio del corpo – cui peraltro il teatro da sempre fa ricorso. Linguaggio per nulla mimetico ma (semmai) simbolico.

Ma anche qui bisogna intendersi. Dire per esempio che la rivolta linguistica degli scrittori della neoavanguardia dei primi anni Sessanta ha preceduto (o annunciato) la rivolta giovanile degli studenti del ’68 forse è verosimile, purché non lo si intenda come un dato ripetitivo e tanto meno imitativo. È che a cominciare da dieci-quindici anni prima, con la fine della guerra, il nostro paese era stato protagonista di un cambiamento strutturale radicale, trasformandosi da paese agricolo in paese industriale, da paese di analfabeti in paese alfabetizzato, da paese di indigenti (e miserabili) in paese ricco di opportunità diffuse. La situazione del paese era così profondamente cambiata da comportare (anzi imporre) per tutti (individui, categorie, classi sociali) la necessità di confrontarsi e sintonizzarsi con la nuova realtà.

Umberto Eco allora diceva (e immagino che oggi sia disposto a ripeterlo) che gli scrittori del Gruppo 63 esprimevano la loro opposizione (e volontà di cambiamento) lavorando (operando) sulla sovrastruttura del linguaggio (sto vergognosamente semplificando lo schema marxiano di lettura della società), mentre il movimento giovanile sessantottesco aveva portato l’opposizione e l’attacco contro la sua struttura (la scuola, le istituzione pubbliche, la religione, i costumi ecc.): con ciò rendendo superflua (in realtà facendo decadere) la valenza politica che il Gruppo naturalmente (suppletivamente?) aveva svolto. Tanto che, perduta quella valenza, il Gruppo raccolto intorno alla rivista «Quindici» nel 1969 la chiuse (nonostante il successo di vendite) e restituì i suoi componenti al loro lavoro identitario (cioè specificamente letterario).

Certo, il rapporto degli scrittori del Gruppo 63 con gli studenti (essenzialmente attraverso «Quindici») era stato intenso, ma in quegli anni (e in quella circostanza) lo scambio di comportamenti e di pensieri coinvolgeva l’intera area creativa, dai narratori ai poeti, dai pittori ai musicisti e (appunto) agli studenti, impegnandoli in un identico sforzo di immaginazione e di rinnovamento (pur preservando la specificità degli strumenti linguistici con cui esprimersi – che poi tante volte non rinunciavano a intrecciarsi e mescolarsi dando vita a forme nuove come la poesia visiva o sonora). Così Edoardo Sanguineti lavorava con Luciano Berio o con Luca Ronconi per l’indimenticabile Orlando furioso; e Nanni Balestrini, il più attento alla sorte e agli esiti possibili della rivolta studentesca, con Luigi Nono, condividendo con Gianfranco Baruchello uno stretto rapporto con l’esempio di Marcel Duchamp.

È indubbio che il coinvolgimento tra le diverse arti si è sempre presentato nei momenti di svolta della cultura di un paese: quando la prospettiva di nuovi avanzamenti, tra le resistenze di un tempo passato ormai esaurito e i ritardi sempre attivi, comporta e favorisce un «lavoro insieme» impegnato nella scoperta di aspetti e gesti esistenziali e nella ricerca di inediti linguaggi, cioè forme con cui esprimerli (dare a essi espressione). Il Gruppo 63 è stato al centro di uno di quei momenti storici – anche se si tarda (il che non stupisce) a riconoscerlo.