Medio Oriente, una città di fantasia. Una rivoluzione, una sconfitta. La rivolta popolare è fallita, l’autorità si è imposta sui cittadini che hanno osato sfidarla. La sollevazione viene etichettata come «Eventi Vergognosi» e la popolazione è costretta a piegarsi al Grande Fratello della città. Che qui si chiama The Gate, il cancello. Alla surreale e pervasiva autorità – invisibile ma presente, ombra sinistra e allucinata che soffoca con la sua burocrazia dittatoriale e centralizzata la vita quotidiana – ogni cittadino deve rivolgersi per ottenere il minimo servizio. Di fronte alle sue porte la fila è interminabile. Letteralmente. Sotto il sole, sotto la pioggia, la gente resta in fila in attesa di un turno che non arriverà mai. Lì finisce per risolversi la vita di tutti i giorni, in fila: qui le storie di uno religioso, di un giornalista indipendente e di Yehia Gad el-Rab Saeed si intrecciano. Yehia protesta, gli sparano. Per potersi far rimuovere la pallottola che lo sta lentamente uccidendo deve ottenere il permesso dal Gate: un foglio che documenti che Yehia è un cittadino. E allora si mette in fila, nella fila interminabile perché le porte non si aprono. E muore dissanguato.

Sospesi nel nulla
Il surrealismo è un tratto caratteristico di molta produzione artistica mediorientale. Un confine, fisico e mentale, una frontiera e la sua rappresentazione simbolica (barriera culturale e politica, divisione tra un luogo immaginato migliore e quello che si vuole abbandonare, separazione dei popoli in termini di superiorità razziale) diventa lo strumento per analizzare una regione definita turbolenta da un millenario eurocentrismo che dimentica di aver creato quella turbolenza.
Nel 1982 il regista siriano Mohamad al-Maghout se ne uscì con un film che l’Europa dovrebbe guardare: Al-Hodood, il confine.

Il sarcasmo amaro che investe la vita del tassista Abdel Wadood si intreccia con un surrealismo che per un rifugiato è spesso vita reale: un giorno Abdel attraversa la frontiera tra i due Stati immaginari di Gharbestan (Ovest) e Sharqestan (Est). Ma nel passaggio perde il suo passaporto, documento quasi magico che apre o chiude porte. Si ritrova così nella terra di nessuno che divide i due paesi: il Sharqestan non lo vuole, non ha documenti che ne attestino l’identità; il Gharbestan non lo riaccetta indietro, identica motivazione.
Abdel resta in mezzo, per tutta la vita. Costruisce lì la sua casa, nella no man’s land che diventa crocevia di sbirri di frontiera, contrabbandieri, ricchi e poveri, vite grame a modo loro. Il mondo passa per quel pezzo di terra, Abdel ne è prigioniero. La terra di nessuno di Abdel è un mondo distopico, realtà surreale ma negativa che richiama il Grande Fratello di Orwell in opposizione alla società pacifica, anarchica e funzionale che Thomas More disegnò in Utopia, una polarizzazione che trova la sua mitica e equilibrata espressione nella Macondo di Marquez: dalla prosperità della comunità popolare al declino figlio del «progresso» capitalista.

Sullo stesso filone si inserisce The Queue, la fila, libro pubblicato dalla casa editrice Melville House. L’autrice, Basma Abdel Aziz, è egiziana e la sua storia è tanto surreale da diventare vera. Il Gate che esce dalla penna di Abdel Aziz non è mera fantasia: è la rappresentazione fisica della chiusura, come la fila lo è di un sentimento unico, la disperazione della speranza.
Quel cancello-chimera è il confine tra Grecia e Macedonia, è Ventimiglia, è il Mar Mediterraneo. È la frontiera sbarrata tra il nord della Siria e il sud della Turchia e Yehia è un rifugiato qualsiasi che muore dissanguato per una pallottola sparata dalla gendarmeria turca che ha gli occhi impermeabili al passaggio di armi islamiste ma la mano reattiva al flusso disperato di profughi in fuga.

La necessità impellente di ottenere un foglio, un documento, un pezzo di carta che attesti chi sei e perché lo sei, che ti dia un’identità altrimenti negata dalla comunità internazionale, è l’espressione della follia politica mascherata da burocrazia con cui la fortezza-Europa si sta barricando. Ed è espressione, allo stesso tempo, dell’arrogante equilibrio che il resto del Medio Oriente usa come paravento per distinguere tra persone, tra luoghi fisici, tra servizi e dignità: è il pezzo di carta che ti confina in un campo profughi in Libano, o in un appartamento in Giordania con decine di persone e un affitto stellare, o in una fabbrica di scarpe in Turchia con uno stipendio da fame e zero diritti.

La storia che Basma Abdel-Aziz racconta, dopotutto, è frutto di un’immagine reale: psichiatra, impegnata con le vittime di tortura in Egitto, collaboratrice del quotidiano indipendente al-Shorouq, camminava nel centro del Cairo quando ha visto di fronte a sé una lunga fila di persone di fronte ad un edificio governativo chiuso. Qualche ora dopo, ripassando per la stessa strada, la scena era identica: le stesse persone erano ancora lì, nell’attesa inutile e impregnata di cieca speranza di vedere la porta aprirsi.

La morte in fila
Su carta, quella storia Abdel-Aziz l’ha messa in meno di dodici ore, in una spasmodica spinta kafkiana a mostrare il volto dell’autoritarismo che tenta l’annullamento- prima con un golpe militare, oggi con la repressione istituzionalizzata – delle ambizioni rivoluzionarie e democratiche del popolo egiziano. The queue è il temporaneo fallimento di piazza Tahrir, è il caos mascherato da ordine sociale imposto dall’ex generale al-Sisi.

Ma se Yehia muore in fila, con una pallottola in corpo, e Abdel fa della terra di nessuno tra Gharbestan e Sharqestan sua dimora obbligata, il cambiamento in atto è solo all’inizio. La rivoluzione egiziana non ha esaurito il suo potenziale e le manifestazioni anti-governative e la ribellione della stampa ne sono lo specchio. Allo stesso modo l’Europa che si fa fortezza non potrà resistere alla pressione dei popoli. Documenti o meno. I mondi distopici non sono mai stati tanto reali e la letteratura araba post-rivoluzioni se ne fa carico, sviscerando i tragitti percorsi, i risultati, i fallimenti e un potenziale futuro