«Un risultato importante, per il parlamento è il segno della centralità», dice il capogruppo del Pd Graziano Delrio. D’ora in poi i Dpcm, i famosi decreti del presidente del Consiglio dei ministri con cui Conte sta governando l’emergenza, dovranno passare per il parlamento. Meglio: potranno passare per il parlamento. La soddisfazione di Delrio è probabilmente eccessiva.

Nel decreto legge del 19 marzo scorso, il sesto degli undici decreti legge piovuti sul parlamento dall’inizio dell’emergenza (conteggio è fermo a ieri), è stato inserito un emendamento di maggioranza in base al quale il presidente del Consiglio «illustra preventivamente alle Camere il contenuto dei provvedimenti … al fine di tenere conto degli eventuali indirizzi dalle stesse formulati». Le camere dunque voteranno, mozioni di maggioranza e di opposizione, per confermare o correggere le intenzioni dell’esecutivo.

Ma il loro parere non sarà vincolante. «Tenere conto» è formula più blanda rispetto ad «assicura una posizione coerente con gli indirizzi definiti dalle camere», che è quella della legge sui rapporti tra parlamento e governo in occasione delle riunioni del Consiglio Ue che ha fatto da modello per l’emendamento. In quel caso, anzi, il governo deve «motivare tempestivamente» eventuali scostamenti dalla linea indicata dalle camere.

Mentre nel caso dei Dpcm il compromesso che la maggioranza giallo-rossa ha raggiunto con il suo esecutivo lascia intatta la possibilità che nulla cambi. Dice infatti il secondo comma dell’emendamento approvato che se «per ragioni di urgenza connesse alla natura delle misure da adottare» il presidente del Consiglio non ha il tempo di illustrare il Dpcm alle camere, può procedere ugualmente. Dovrà solo presentarsi in parlamento nei quindici giorni successivi per presentare provvedimenti già in vigore. Senza che sia più previsto alcun voto delle camere.

È un passo avanti nella direzione dell’uscita dallo stato di eccezione, durante il quale sono stati limitati essenziali diritti civili sulla base di atti di rango inferiore a quello della legge ordinaria come i Dpcm? Per il Pd lo è certamente. Ma non nel senso che il meccanismo garantisca una piena «parlamentarizzazione» dei Dpcm, come in parte riconosce lo stesso deputato e costituzionalista Stefano Ceccanti, autore dell’emendamento poi riformulato dal governo. «Ponendo dei vincoli ai Dpcm speriamo di disincentivarne l’uso – spiega Ceccanti – spingendo così il governo nella fase due all’uso dello strumento più fisiologico dei decreti legge. Ovviamente il meccanismo andrà verificato ed eventualmente modificato sulla base dell’esperienza».

Il conteggio dei Dpcm al momento pareggia quello dei decreti legge: sono undici, in attesa di quello che entro la fine della settimana detterà le regole per le riaperture regionali. Il Pd vorrebbe che Conte anticipasse la nuova procedura venendo subito a presentarlo nelle aule – è difficile. Ma c’è anche chi teme che questo tentativo di mettere un limite agli atti slegati alla verifica delle camere possa trasformarsi in un boomerang.

«L’intento lodevole di ridare un po’ di centralità alle camere finirà molto probabilmente per certificarne l’ininfluenza», dice il deputato radicale di +Europa Riccardo Magi. Intanto sempre alla camera, in commissione affari costituzionali, il sottosegretario all’interno Variati ha detto che il governo non intende modificare il decreto legge elezioni, chiudendo quello spiraglio che prima il ministro Boccia e poi lo stesso Conte avevano aperto ai presidenti di Regione. In questo modo non sarà possibile votare per le regionali a luglio.

Nessun gruppo politico se l’è sentita di intestarsi la richiesta. Zaia, Toti, De Luca ed Emiliano, i quattro «governatori uscenti» che puntavano alla riconferma facile, sono tutti – chi più chi meno – un problema per i loro partiti.