«Se una donna deve partorire non può essere rimandata a casa. Se bisogna praticare un aborto va fatto, così come una paziente oncologica non può ritardare un intervento. La salute delle pazienti deve essere tutelata. Noi chiediamo tamponi rapidi, posti letto e tutti quei dispositivi in grado di lasciarci lavorare in sicurezza. C’è bisogno di riaprire gli ospedali che negli anni sono stati chiusi». A parlare è un’infermiera dell’ospedale civile Annunziata di Cosenza, dove oggi ha sede l’unico centro nascite per una provincia popolata da oltre settecentomila abitanti.

La testimonianza della lavoratrice è stata raccolta sui canali social di Fem.In.- Cosentine in lotta; collettivo intersezionale radicato nella città bruzia che ormai da mesi denuncia la pessima condizione della sanità calabrese. «In una situazione di emergenza possiamo anche accettare gli ospedali da campo. Ma a cosa serve spendere soldi quando ci sono strutture chiuse e in buone condizioni? A Cariati, così come a Mormanno, gli ospedali smantellati si trovano in strutture nuove che in questo periodo avrebbero potuto accogliere i pazienti Covid. Sappiamo bene come ci sia chi speculi sulle emergenze: siano esse dovute alle alluvioni, ai terremoti o ad altro», spiega al telefono Jessica di Fem.In.

«Questo commissariamento è paradossale», prosegue. «Noi abbiamo un commissario al piano di rientro e non alla sanità, come invece disposto in altre regioni. La retorica dell’uomo solo, del commissario coraggioso, oramai non ha più senso: i governi se ne lavano le mani e gli effetti fallimentari sono sotto agli occhi di tutti. Basti pensare alla vicenda di Cotticelli, riconfermato nel suo incarico senza neppure constatare l’elaborazione del piano anti- Covid regionale. Non ci servono manager. Ci vogliono dottori e dottoresse che comprendano i bisogni delle persone. Certo, un’equipe tecnica è necessaria, ma la salute è per prima cosa un diritto», afferma Jessica. «Non vogliamo solo manager», dice. «Ci servono dottori, dottoresse che possano capire i bisogni dei pazienti. Bisogna evidenziare quanto la salute sia prima di tutto diritto, e non soltanto un insieme di conti da far quadrare», commenta la giovane.

Dal confine calabro-lucano fino allo Stretto di Messina, la Calabria conta ben diciotto ospedali chiusi. Tra questi compare anche il nosocomio di Praia a Mare, un paese della Riviera dei Cedri a pochi chilometri dalla Basilicata. «Da quando l’ospedale è stato ridotto in casa della salute, per oltre sessantamila persone che abitano sull’Alto Tirreno Cosentino manca l’emergenza- urgenza. Il nosocomio più vicino resta quello di Cetraro, distante oltre 50 km dai paesi più interni come Tortora o Papasidero. Una distanza che non permette di raggiungere il presidio ospedaliero in un’ora e che in estate, essendo questa zona un’ambita meta turistica, triplica le presenze raddoppiando i tempi di percorrenza», afferma Giovanna Pedullà dell’associazione Sanità è Vita Onlus che da tempo tiene accesi i riflettori sulla spinosa questione dell’ospedale praiese.

Nel 2010, infatti, Scopelliti (all’epoca presidente della Regione Calabria e commissario ad acta per la sanità) elabora un piano di rientro in cui è previsto il riordino della rete ospedaliera regionale, riducendo le funzioni di molti ospedali. «L’ospedale di Praia ha sempre presentato un bilancio in attivo. I commissari nominati dal governo non ci hanno mai ascoltati peggiorando addirittura la situazione. Il decreto firmato da Scura nel 2016 ha inserito la clinica privata Tirrenia Hospital di Belvedere fra le strutture accreditate al Ssn, in modo da ridurre i tempi di percorrenza per raggiungere un presidio ospedaliero. Secondo l’Agenas, però, si può ricorrere alle strutture private solo se mancano strutture pubbliche, e non sostituirsi alle stesse», dice Pedullà. Dagli anni ’70 fino al 2012, anno in cui il nosocomio è depotenziato, l’ospedale di Praia ha avuto diversi reparti, tra cui il punto nascite e la chirurgia d’urgenza. «Oggi Praia potrebbe essere utile come Covid Hotel, è vero, in modo da supportare gli ospedali intasati.

Al momento abbiamo una risonanza magnetica, un punto di primo intervento, radiologia, ma l’ospedale deve essere riaperto. E questo lo dice anche la sentenza n.1153/2017 del Consiglio di Stato. Bisogna porre fine a questa emorragia di denaro che in Calabria è provocata da ‘ndrangheta, strutture private convenzionate e sanità passiva». In Calabria l’emergenza sanitaria non è iniziata lo scorso 3 novembre con la dichiarazione della zona rossa, che ha sospeso diverse visite ambulatoriali. Nelle ultime settimane però, la Calabria è scesa in piazza