«Un terremoto nel terremoto». Accolta con sgomento, rabbia e dolore dai parenti delle vittime del sisma del 9 aprile 2009 e dai tanti cittadini che attendevano impazienti davanti al tribunale del capoluogo abruzzese, la sentenza emessa ieri dalla Corte d’Appello de L’Aquila se però ha un pregio è quello di aver detto chiaramente che la Protezione civile non può scaricare le proprie responsabilità su scienziati ed esperti chiamati per un parere consultivo.

Dopo sette ore di camera di consiglio, la corte presieduta da Fabrizia Francabandera ha ribaltato il giudizio di primo grado – che tanto clamore aveva destato nella comunità scientifica internazionale – e ha scagionato dall’accusa di omicidio colposo plurimo sei dei sette imputati, membri della Commissione grandi rischi che il 31 marzo 2009 vennero riuniti all’Aquila dall’uomo che allora impersonava la Protezione civile, Guido Bertolaso. Tutti assolti tranne Bernardo De Bernardinis, a quei tempi vice capo del servizio tecnico del Dipartimento di Protezione civile (Dpc) e uomo di fiducia di Bertolaso, condannato a due anni di reclusione con pena sospesa. Fu lui che al termine della riunione della Commissione, durata meno di un’ora e il cui verbale venne firmato solo dopo il terremoto, intervistato da una tv locale rassicurò gli aquilani terrorizzati dal lungo sciame sismico e li invitò a rilassarsi bevendo «un buon bicchiere di Montepulciano».

Annullata invece la condanna a sei anni di reclusione per tutti gli altri: Franco Barberi, all’epoca presidente vicario della Commissione, Enzo Boschi, già presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), Giulio Selvaggi, ex direttore del Centro nazionale terremoti, Gian Michele Calvi, direttore di Eucentre e responsabile del Progetto Case, Claudio Eva, docente di fisica all’Università di Genova e Mauro Dolce, ex direttore dell’ufficio rischio sismico di Protezione civile.

Una sentenza, quella di ieri, che ha lasciato attoniti molti aquilani. Scene di rabbia e dolore, con lacrime e urla – «vergogna, vergogna» – fuori dalle aule del tribunale. Perfino il procuratore generale Romolo Como, che aveva chiesto la conferma del verdetto di primo grado, si è detto «alquanto sconcertato»: «Immaginavo un forte ridimensionamento dei ruoli e delle pene – è stato il commento a caldo – ma non un’assoluzione così completa, scaricando tutto su De Bernardinis, cioè sulla Protezione Civile». Eppure l’ex vice di Bertolaso non si scompone: «Se fossi stato il padre di una delle vittime avrei fatto la stessa cosa – dice De Bernardinis – Una vittima è sempre una vittima. Non ho mai contestato nulla». E per il suo legale, l’avvocato Filippo Dinacci che assisteva anche l’ex direttore dell’ufficio rischio sismico di Protezione civile, «non c’è alcuna responsabilità della Protezione Civile» come «dimostra il fatto che Mauro Dolce è stato assolto con formula piena».

Di tutt’altro avviso, il capo della Procura aquilana Fausto Cardella: «La sentenza d’Appello – dice – conferma l’impianto accusatorio specie quando ribadisce i danni provvisionali: condanna chi ha fatto quelle dichiarazioni fuorvianti e conferma il nesso causale tra dichiarazioni ed eventi successivi». In sostanza, spiega Cardella, «è stata confermata l’idea di una colpa generica, che fa giustizia di tutte le sciocchezze dette in passato sul processo a Galileo, alla scienza. Aspettiamo quindi le motivazioni delle altre assoluzioni con molto rispetto, anche se ipotizzo che la Corte non abbia ravvisato colpa ragionando forse sulla consapevolezza di alcune dichiarazioni».

La tesi in appello della procura aquilana ricalcava infatti le motivazioni della sentenza di primo grado scritte dal giudice Marco Billi, secondo il quale gli esperti chiamati alla riunione del 31 marzo 2009 aderirono in maniera «colpevole e acritica alla volontà del capo del Dpc di fare un’operazione mediatica» (così la definì lo stesso Bertolaso, allora sottosegretario della presidenza del Consiglio, in una telefonata intercettata dagli inquirenti) contribuendo in questo modo alla divulgazione di «affermazioni assolutamente approssimative, generiche e inefficaci in relazione ai doveri di previsione e prevenzione».

Quella prima sentenza, emessa il 22 ottobre 2013, sollevò però le critiche degli scienziati di tutto il mondo, preoccupati di perdere la libertà del dubbio scientifico e di veder confuso il loro ruolo con quello di politici e amministratori. E accese i riflettori anche sulla crisi della comunicazione delle istituzioni e dell’informazione, troppo spesso subalterna al potere politico. Su questi dubbi hanno fatto perno gli avvocati difensori degli imputati, benché la procura aquilana avesse ribadito l’unicità di un processo (per la prima volta alla sbarra un intero pezzo dello Stato) che non è stato celebrato «contro gli scienziati» ma a dei «funzionari dello Stato» accusati di non aver analizzato correttamente tutti i rischi di un territorio troppo fragile.

La notizia del proscioglimento degli scienziati presenti a quella riunione è stata accolta con «grande soddisfazione» dall’Ingv perché, spiega il presidente Stefano Gresta, «dimostra che i due colleghi hanno sempre agito con correttezza fornendo contributi scientifici e ribadendo, contestualmente, l’alta pericolosità sismica della regione Abruzzo, coerentemente con i precedenti comunicati emessi dall’Ente». Per tutti gli altri, per i tanti aquilani che ora si sentono senza protezione e che già preparano il ricorso in Cassazione, «i morti non sussistono» e la «Giustizia è pronta a chiudere gli occhi di fronte alla realtà, la giustizia non esiste».