Nel cinquantesimo anniversario della Conferenza dell’episcopato latinoamericano di Medellín, vero atto di nascita di una Chiesa autoctona liberatrice e profetica, la pubblicazione dell’opera di Ignacio Martín Baró – uno dei gesuiti della Uca (l’Università centroamericana di San Salvador) assassinati il 16 novembre 1989 dalle forze armate salvadoregne – non potrebbe essere più opportuna. Tanto più perché, con il suo libro Psicologia della liberazione, (Bordeaux, pp. 320, euro 18) i due curatori, Mauro Croce e Felice Di Lernia, si propongono di avviare un dibattito su un nuovo modo di fare psicologia, all’interno di quell’orizzonte della liberazione proposto 50 anni fa da Medellín a partire dalla denuncia della miseria collettiva come «ingiustizia che grida al cielo».

SE L’INVITO dei vescovi a rileggere la realtà dal rovescio della storia si è tradotto specificamente nella teologia della liberazione, intesa come riflessione che nasce dalla prassi e si traduce in azione trasformatrice della realtà, tale ripensamento critico esce poi dall’ambito ecclesiale per investire e attraversare molti altri saperi, i quali trovano in quell’orizzonte di liberazione, come evidenzia Mauro Croce, «un collante ideale, teorico, metodologico e anche utopico»: dalla pedagogia degli oppressi di Paulo Freire al teatro dell’oppresso di Augusto Boal, fino alla filosofia della liberazione di Enrique Dussel. E, appunto, a quella psicologia della liberazione di cui Martín-Baró è unanimemente riconosciuto come il fondatore, rivolta a riscattare le moltitudini popolari dallo sfruttamento economico, dalla miseria sociale e dall’oppressione politica, contribuendo a costruire un essere umano nuovo in una società nuova.

Un compito che il gesuita riteneva possibile, però, solo a partire da una liberazione della stessa psicologia, generalmente assai poco chiara sulla «relazione tra alienazione personale e oppressione sociale, come se la patologia delle persone fosse qualcosa di alieno alla storia e alla società o come se il senso dei disturbi del comportamento si esaurisse sul piano individuale». Per Martín Baró, al contrario, «è la struttura socio-storica quella che configura il carattere. Ovvero, ogni individuo ha il carattere che ha perché così glielo ha «assegnato» la struttura socio-storica». Proprio come «mascolinità e femminilità sono, fondamentalmente, un prodotto socioculturale, non un dato biologico». Solo una psicologia «liberata» può allora trasformarsi in un modello di intervento al servizio degli oppressi, favorendo il passaggio da un sentimento di impotenza e di rassegnazione, da un fatalismo pessimista inteso come introiezione della dominazione sociale, alla consapevolezza di poter incidere sul proprio destino, molto oltre, sottolinea Croce, quel concetto di benessere individuale dominante nell’attuale fase storica, slegato sempre più da «un’idea e una progettualità condivise» e collocato in una cornice consumista in cui non può «che risultare concorrenziale verso quello degli altri».

SE LA PSICOLOGIA, evidenzia Martín Baró, vuole mettersi al servizio della causa di liberazione dei popoli latinoamericani non dovrà però solo riconsiderare il proprio bagaglio teorico e pratico, ma dovrà farlo partendo dal basso, dalla vita, dalle sofferenze, dalle aspirazioni e dalle lotte dei popoli oppressi, dal punto di vista dei dominati anziché da quello dei dominatori. Dove parlare di punto di vista significa che «non si tratta di pensare noi per loro, di trasmettere loro i nostri schemi o di risolvere noi i loro problemi; si tratta di pensare e teorizzare noi con loro e a partire da loro». E, cioè, provare «a pensare alla psicologia educativa dal punto di vista dell’analfabeta», «alla psicologia clinica dal punto di vista dell’emarginato» e, in particolare, «alla psicologia del lavoro dal punto di vista del disoccupato», allo scopo di valutare cosa fare «perché la sua personalità non si disintegri o perché la sua vita e persino la vita di intere comunità non trascorra senza altro orizzonte né progetto se non quello della mera sopravvivenza quotidiana». Una psicologia del senza-lavoro, di cui, come commenta Felice Di Lernia, in un contesto come quello italiano non si può non sentire la mancanza.